di Emanuele Esposito
Avevo deciso, al termine dell’ultima riunione del Comites di Sydney, di non scrivere una sola parola su questa vicenda. Primo, perché ormai è diventata veramente una barzelletta. Secondo, perché – purtroppo o per fortuna – al rispetto per le istituzioni, ci credo ancora.
Ma quando ho letto il comunicato stampa del Comites pubblicato dai colleghi dell’AISE, non ho potuto esimermi dal fare un commento sulla questione, anche perché ero, appunto, presente al momento dei fatti.
Nel corso dell’ultima riunione del Comites di Sydney, è accaduto qualcosa che merita attenzione: su proposta del presidente, i consiglieri a maggioranza hanno deciso mettere ai voti una mozione per non votare.
O meglio, hanno scelto di non esprimere alcun parere sulla richiesta di contributo pubblico avanzata dalla testata Allora!. Una scelta che, dietro apparente cautela istituzionale, nasconde in realtà, a mio modesto avviso, un corto circuito tutto politico.
Secondo quanto riportato dallo stesso Comites, è stato sottolineato il “carattere paradossale della procedura” prevista dalla legge: da un lato si richiede ai Comitati di esprimere un parere sull’effettiva funzione informativa e sulla rilevanza delle testate per la comunità italiana residente; dall’altro, si scoraggia ogni valutazione di merito sui contenuti editoriali, in quanto potenzialmente lesiva della libertà di stampa. Insomma: “Esprimetevi, ma senza entrare nel merito”.
E così, per “coerenza”, la maggioranza dei consiglieri ha scelto non di astenersi sulla votazione ma di dichiarare l’impossibilità di procedere con l’espressione del parere. Un modo elegante per lavarsene le mani.
È difficile non notare che, nella riunione precedente, era stata messa all’ordine del giorno proprio la richiesta di finanziamento da parte della testata. E lì è scoppiato il primo caso. Il Comites aveva infatti rifiutato di esprimere un parere motivando la decisione con la presunta mancanza di elementi essenziali nella documentazione ricevuta — in particolare, i consiglieri erano curiosi di sapere la cifra richiesta. In sostanza: “Non sappiamo quanto chiedono, quindi non possiamo giudicare”.
Una giustificazione debole, se non addirittura pretestuosa. Basterebbe conoscere la normativa per sapere che il parere richiesto al Comites non è contabile ma qualitativo: riguarda la rilevanza della testata per la comunità, la sua diffusione e la sua funzione informativa. Non il bilancio.
E infatti il Consolato ha poi fornito i chiarimenti richiesti.
Ma nemmeno la risposta del Console Rubagotti sembra aver convinto il presidente e i suoi consiglieri, reduci di un impasse che dura anni e che quindi si sono rifiutati di esprimersi.
La realtà? Il metodo usato nei confronti di Allora! è un unicum. Nessun’altra testata ha subito simile trattamento. Forse perché quando si parla di Allora!, a qualcuno viene l’orticaria. Una reazione che puzza di antipatia personale o politica, di personaggi che da anni hanno a cuore soltanto la divisione della nostra amata comunità italiana.
Va ricordato che il parere richiesto ai Comites, pur obbligatorio, non è vincolante. La legge prevede che venga espresso in base a criteri oggettivi ben noti al Comites di Sydney. Punto. Tutto ciò che riguarda i contenuti editoriali è soggettivo e, per definizione, opinabile e quindi come prescrive la legge, non deve influenzare il parere.
Ancor meno competenza spetta ai Comites sulle questioni contabili e amministrative: quelle sono responsabilità del DIE (Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria). Chi decide se i conti tornano non sono i consiglieri a Sydney, ma gli uffici preposti.
Il rischio concreto è quello di piegare la legge a usi pretestuosi, secondo il principio per cui “la legge si interpreta per gli amici e si applica (male) per i nemici”.
Ne abbiamo viste tante: relazioni burrascose tra editori e presidenti di Comites finite in tribunale, tensioni che si trascinano da anni. Ma qui si va oltre: si boicotta il diritto stesso di esistere delle testate italiane all’estero.
Quando si tratta di patronati o enti gestori dei corsi di lingua italiana, gli amici scendono in campo: si fanno sentire, scrivono, si espongono.
Quando invece si tratta di editori — soprattutto quelli piccoli, indipendenti — il silenzio è assordante. Eppure sono proprio le testate italiane all’estero a garantire visibilità quotidiana. Senza di loro, molti sarebbero perfetti sconosciuti.
Perché questo disinteresse? Forse perché i patronati sono espressione dei sindacati, e quindi più “coperti”? Forse perché gli enti gestori — oggi chiamati “promotori” — sono inseriti in una filiera benedetta dalle istituzioni e strategicamente utile?
Intanto, mentre si discute al “CGIE”, nessuno spende una parola sulle testate storiche e indipendenti che da decenni promuovono cultura e identità italiana nel mondo. Quelle, semplicemente, vengono ignorate.
Il Comites di Sydney ha perso ancora una volta l’ennesima occasione per dimostrarsi all’altezza del suo ruolo.
Ha scelto il silenzio quando la legge chiedeva una voce. Ha scelto la paura del giudizio anziché l’assunzione di responsabilità. Ma il giornalismo non vive di favori: vive di lettori. E i lettori, come sempre, sapranno giudicare chi ha fatto, e chi da anni continua solo ad ostacolare.
