di Daniele Trabucco
Nel cuore dell’argomentazione del prof. Giovanni Fornero si cela una contraddizione tragica, propria del pensiero contemporaneo che, in nome dell’autodeterminazione, dissolve ogni fondamento ontologico della libertà. Egli muove dalla premessa che l’uomo sia libero e, in questo, sembrerebbe aderire a una visione antropologica condivisa, per poi affermare che tale libertà sarebbe incompleta, se non includesse il diritto di porre fine alla propria vita.
Tuttavia, è proprio qui che la posizione forneriana mostra tutta la sua fragilità speculativa: l’uomo non può essere definito libero se intende la libertà come puro arbitrio, come capacità indifferente di autodistruzione. Una tale nozione, lungi dall’essere affermazione della libertà, ne costituisce la più radicale negazione.
La libertà, in quanto proprietà della volontà razionale, non si esprime nella scelta cieca o nella negazione dell’essere, ma nel riconoscimento dell’ordine del reale. In questo senso, è già Aristotele, e poi Tommaso d’Aquino in modo insuperato, a chiarire che la libertà è “actuosa electio eorum quae sunt ad finem”, cioè scelta attiva dei mezzi ordinati a un fine naturale. Il suicidio non è mai mezzo verso un fine, ma negazione dell’ordine finalistico dell’esistenza.
Fornero propone, invece, una libertà svincolata da ogni telos, una libertà che coincide con la possibilità di porre termine alla propria esistenza: una libertà, dunque, che non costruisce, bensì annichila. Una tale concezione, lungi dall’essere una conquista della ragione, è l’esito estremo del nichilismo. Il tentativo di ridurre la dottrina cattolica tradizionale a una sorta di dispositivo repressivo del libero arbitrio è altresì logicamente viziato da una confusione tra “libertas” e “licentia”.
Fornero non vuole cogliere che il pensiero classico-cristiano ha sempre concepito la libertà non come facoltà illimitata, quanto come inclinazione razionale al bene, all’essere, al vero. In questa prospettiva, il limite non è negazione della libertà, ma sua condizione ontologica. Il limite che la Chiesa oppone al “diritto di morire” non è, dunque, un arbitrario atto di potere: è una fedeltà all’essenza stessa della libertà come orientamento al bene. Fornero rovescia questa visione, proclamando che la libertà sarebbe autentica solo se inclusiva della possibilità di sopprimere sé stessi, ma si dimentica che, nel suicidio, non si afferma la libertà, si afferma soltanto l’assurdo di un potere che si annienta nel suo stesso esercizio. L’argomento empirico, poi, secondo cui la maggioranza degli italiani sarebbe favorevole a questo presunto diritto non ha alcuna consistenza razionale. Il fatto che un’opinione sia condivisa dalla moltitudine non la rende vera. La verità non è mai funzione del numero. L’autorità morale non si fonda sul consenso, bensì sulla corrispondenza all’essere. Anche laddove interi popoli si piegassero all’idea della morte come diritto, ciò non costituirebbe un progresso, ma l’ennesima testimonianza della crisi dell’intelligenza morale in epoca post-metafisica.
Il richiamo a figure come Hans Küng o a correnti protestanti come il valdismo non rappresenta un argomento teoretico, trattandosi solo di un espediente retorico. Citare dissidenti teologici per colpire la dottrina cattolica è una mossa antinomica: non si può confutare un sistema concettuale attraverso elementi che si pongono fuori da esso. Il pensiero di Küng, pur elaborato e sofisticato, si muove al di fuori del quadro della metafisica classica e assume a criterio di giudizio l’autonomia del soggetto moderno. Tuttavia, è proprio questo il nodo irrisolto: se il soggetto si fa misura del bene e del male, se la coscienza diventa sovrana dell’essere, allora nessun limite è più ammissibile e ogni pretesa si converte in diritto.
Fornero si colloca interamente dentro questa logica senza esplicitarne le conseguenze: se il diritto alla morte è fondato sulla sovranità dell’io, allora anche l’eliminazione del nascituro, del disabile, del senescente potrà essere giustificata ogniqualvolta la loro esistenza contraddica un progetto soggettivo di vita. In verità, la Chiesa, lungi dall’essere reticente o chiusa, è l’ultima voce pubblica che ancora osa parlare in nome di un ordine dell’essere che precede e fonda la libertà. Essa non teme il dibattito, ma rifiuta di abdicare all’ideologia della volontà assoluta. La presunta “cultura cattolica” che, secondo Fornero, opprimerebbe la coscienza collettiva, non è altro che il riflesso residuo di un’antropologia realista, che riconosce nella vita umana un bene indisponibile, e che respinge la riduzione della libertà a volontà di potenza. È questa cultura che ha impedito che la dissoluzione postmoderna diventasse finora norma giuridica totale; è questo pensiero, nonostante le accuse di conservatorismo, che custodisce la dignità dell’umano contro il dilagare della logica dell’utilità e della morte dolce.
L’argomentazione di Fornero non è nuova: è la riproposizione, in abito laico, del vecchio soggettivismo cartesiano e kantiano, svuotato ormai di ogni tensione metafisica e ricondotto a uno schema consumistico dell’esistenza. Ora, la vita non è un prodotto da accettare finché risulta gradevole: essa è un bene intrinsecamente relazionale, un dono che ci fonda, una realtà che non ci appartiene.
Daniele Trabucco è professore stabile in Diritto costituzionale e Diritto pubblico comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario San Domenico di Roma e dottore di ricerca in Istituzioni di Diritto pubblico nell’Universitá degli Studi di Padova.
