In buona parte degli eventi che si celebrano nella nostra amata comunità non si perde occasione per parlare di “cultura” italiana. È il biglietto da visita d’eccellenza per ogni occasione: alle cene, ai festival, nelle interviste. “Noi italiani portiamo avanti le nostre tradizioni”, “Noi teniamo vive le nostre radici”. Parole grandi, pronunciate con il petto gonfio, quasi fossero medaglie da esibire.
Poi, però, basta assistere a una delle tante feste “italianissime” organizzate localmente per rendersi conto che siamo davvero messi male. Il momento perfetto per comprendere a pieno questo dramma è quello in cui si canta l’inno nazionale italiano.
L’inno di Mameli, che già di suo ha un’introduzione strumentale lunga, parte… il pubblico si raddrizza, mano sul petto. Ci siamo. “Fratelli d’Italia…” tutto liscio fino a “Iddio la creò!”
Ed ecco che, tra una strofa e l’altra, nel famoso intermezzo, la nostra “italianità” si manifesta in tutta la sua gloria: un coro spontaneo di “pa pa pa! pa pa pa! pa pa pa pa pa, pa pa!”. E non è un caso isolato. È la norma.
A questo si aggiunge un’altra categoria: quelli che restano muti. Immobili. Con le labbra serrate, magari con aria annoiata o distratta. Persone che però nella loro mente amano definirsi “orgogliosamente italiani”, come ai tempi in cui il Presidente Ciampi rimproverava alla nazionale di calcio la triste scena muta ai mondiali.
E allora viene da chiedersi: di cosa stiamo parlando quando parliamo di “cultura”? Perché la cultura non è una targa appesa al muro, né una parola da infilare nei discorsi per darsi importanza. È un patrimonio vivo, che va conosciuto e fatto conoscere. È il sapere chi siamo e cosa rappresentiamo… a partire dall’inno.
Cantarlo, intonato o meno, non è un atto folcloristico: è dire “io faccio parte di questa storia, di questa comunità”. Non serve essere Pavarotti, ne tantomeno permettere che la nostra identità si trasformi in una scenetta da sagra paesana, col “pa pa pa”.
