In politica, il tempismo vale quanto – se non più – del programma. Giorgia Meloni lo sa bene: governare una maggioranza non è solo un esercizio amministrativo, ma un’arte che combina forza, consenso e capacità di leggere il momento giusto.
Da mesi, nei corridoi di Palazzo Chigi e nelle pagine dei retroscena politici, rimbalza una voce insistente: anticipare le elezioni politiche alla primavera o all’autunno del 2026, un anno e mezzo prima della scadenza naturale della legislatura. Pubblicamente, la premier non conferma: smentisce a mezza bocca o cambia discorso. Ma il silenzio, in politica, è spesso più eloquente.
Oggi il governo Meloni ha superato i 1.025 giorni di mandato, diventando il quarto esecutivo più longevo della Repubblica, alle spalle del Craxi I e di due governi Berlusconi, sorpassando Renzi. Se nulla si incrina, il 4 settembre 2026 potrebbe affiancare il secondo governo Berlusconi – il più duraturo di sempre. L’obiettivo dichiarato è governare cinque anni pieni, traguardo mai centrato da un leader repubblicano. Meloni rivendica stabilità come fondamento: continuità interna, credibilità internazionale e tempo per le riforme strutturali.
Ma la politica è un cantiere aperto. All’orizzonte ci sono nodi: un eventuale referendum sul premierato e, soprattutto, le grandi partite di potere che scandiscono il calendario istituzionale.
I motivi che alimentano l’ipotesi sono molteplici. Primo: il consenso oggi è alto e, in politica, è un bene deperibile. Aspettare il 2027 significa esporsi a crisi economiche o cali di popolarità. Meglio capitalizzare adesso. Secondo: ricompattare la coalizione. La Lega di Salvini vive un momento difficile, Forza Italia cerca ancora una rotta. Un voto nel 2026 permetterebbe a Meloni di ridisegnare gli equilibri. Terzo: lo sguardo sul Quirinale. Nel 2029 si eleggerà il nuovo Presidente della Repubblica. Arrivarci con una maggioranza fresca significherebbe blindare un’elezione strategica.
Infine: l’ipotesi “Election Day”. Concentrare politiche e comuni importanti in un’unica tornata significherebbe risparmiare risorse e massimizzare la mobilitazione. Non è da escludere che Meloni punti anche oltre i confini: la presidenza del Consiglio Europeo nel prossimo ciclo politico. Non mancano, però, le incognite. Un’elezione anticipata può rivelarsi un boomerang: imprevisti in campagna elettorale o un’alleanza avversaria ben costruita possono cambiare gli equilibri. Inoltre, potrebbe complicare i rapporti con Bruxelles, soprattutto durante il PNRR.
Ma il rischio maggiore è politico-culturale: alimentare l’idea che la legislatura sia negoziabile. In un Paese dove la stabilità è merce rara, un nuovo scioglimento anticipato non sarebbe un segnale virtuoso. Anticipare il voto non sarebbe la conseguenza di una crisi, ma di un calcolo di potere. Una prassi legittima, certo, ma che interroga il senso stesso del mandato elettorale.
Il vero interrogativo non è se Giorgia Meloni possa anticipare le elezioni, ma se voglia farlo davvero. Una volta scelta la data, non si torna indietro: il Paese entrerebbe in campagna elettorale permanente, e il governo diventerebbe una macchina da voto.
