Quando finiscono le parole e resta la rissa

di Emanuele Esposito

Una sinistra che dovrebbe dialogare… e questi sarebbero quelli che vorrebbero governare? Gli stessi che si lamentano perché “si svegliano presto la mattina”, gli stessi che piangono perché “prendono poco di stipendio”… alla faccia dei lavoratori veri, quelli che ogni giorno portano a casa quel poco per sostenere la famiglia. Questa sarebbe la sinistra dei diritti, dei valori, della responsabilità?

Intanto, noi restiamo sgomenti per ciò che avviene nei Paesi dove la libertà politica e la giustizia sociale vengono calpestate. Ma non possiamo chiudere gli occhi davanti a ciò che accade anche qui: l’Italia, ancora una volta, turbata da violenze provocate da minoranze che, con i loro atti irresponsabili, trascinano nell’ombra il lavoro e i sacrifici della maggioranza. Gli ultimi fatti di Milano ne sono una conferma amara.

Non lo dico io: lo diceva già Saragat, nel messaggio di fine anno 1970. La violenza, ammoniva il Presidente, nasce da una debolezza morale. Non è forza, è miseria. Non è coraggio, è fuga. I problemi veri – lavoro, dignità, giustizia – non si risolvono con le urla e gli spintoni, ma con fatica, responsabilità e sacrificio.

Eppure oggi la politica italiana sembra incapace di imparare la lezione. Da un lato si possono usare parole come “fascista” senza scandalo, dall’altro basta rispondere con “comunista” per essere accusati di odio. È un doppio standard che mina la credibilità del confronto democratico. E quando un politico del PD in Aula si permette di dire: “Vi abbiamo già appesi una volta”, la reazione non è scandalo ma silenzio, minimizzazione, normalizzazione.

L’uomo delle parole Estratto monologo Di Luca & Paolo alla trasmissione periodo queste parole risuonano come un monto forte. Di Martedì, credo che mai come in questo “C’era un signore, Floris. Ora non c’è più. Si chiamava Charlie Kirk.

Un attivista, un retore: di destra radicale, seguace di Trump, ultraconservatore. Andava nelle università a discutere con studenti che non la pensavano come lui. Li provocava, li sfidava, li confutava: a volte con durezza, ma sempre con parole. 

Per questo fa tristezza vedere i sorrisi di chi ha goduto della sua morte: la settimana scorsa, proprio in università, mentre dibatteva, gli hanno sparato. Quando arrivano le pallottole significa che sono finite le parole. E quando le parole finiscono, siamo tutti in pericolo.

La cultura, la scuola, la politica dovrebbero darci più idee e più occasioni di confronto. Invece vediamo slogan, indignazioni a comando e rabbia organizzata. I dati Ocse sono impietosi: sei italiani su dieci con la terza media non comprendono un testo più lungo di qualche riga; tre diplomati su dieci si fermano al retro di un biglietto dello stadio; perfino un laureato su dieci – seicentomila persone – non capisce un oroscopo di tre righe. In questo deserto servono più parole, non meno”.

E arriviamo all’Italia di oggi. Un Parlamento che dovrebbe essere la casa del confronto democratico si è trasformato in un ring. L’approvazione della riforma della giustizia non ha visto un dibattito serrato, ma un’aggressione organizzata: deputati del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle hanno assaltato i banchi del governo. Spintoni, urla, mani addosso: immagini indecorose che restano come una ferita alla credibilità delle istituzioni.

Fa impressione che a inscenare lo spettacolo siano stati proprio quelli che, fino a ieri, accusavano gli altri di fomentare l’odio. I predicatori di dialogo hanno risposto a un voto parlamentare non con critiche aspre, ma con un agguato fisico. Un cortocircuito che rivela una sinistra sempre più ostaggio di slogan e rabbia. Quando la violenza entra nelle istituzioni, non resta confinata: diventa un precedente, un virus che mina le regole del gioco democratico. Chi trasforma l’Aula in una curva da stadio non può pretendere di ergersi a garante della democrazia. E intanto, fuori dal Palazzo, i cittadini attendono risposte – lavoro, stipendi, sicurezza – e si ritrovano spettatori di uno show indecoroso, dove non vince la forza delle idee ma quella dei muscoli.

Il messaggio che arriva è chiaro: una classe politica incapace di scegliere la via del dialogo preferisce il palcoscenico della violenza. E così, tra insulti a corrente alternata e risse in Aula, la democrazia italiana continua a logorarsi. Non per colpa delle idee, ma per colpa delle parole che mancano.