Perché voterò SÌ: la giustizia non deve solo essere fatta, ma anche apparire tale

di Emanuele Esposito

In Italia si parla spesso di giustizia, ma troppo raramente di giustizia giusta. Abbiamo vissuto decenni in cui la distinzione tra chi accusa e chi giudica è rimasta sfumata, quasi confusa. Pubblici ministeri e giudici sono figli dello stesso corpo, cresciuti nelle stesse aule, formati dagli stessi maestri, talvolta persino valutati dagli stessi organi.

 È come se l’arbitro e il centravanti appartenessero alla stessa squadra: anche se l’arbitro fosse onesto, il dubbio resterebbe. E quel dubbio, in uno Stato di diritto, è veleno. La separazione delle carriere non è una riforma “di destra”. È un principio di civiltà giuridica, già adottato nella maggior parte del mondo libero: Francia, Germania, Stati Uniti, Spagna e – soprattutto – Australia, dove vivo ormai da venticinque anni. 

Qui questo principio non è oggetto di contesa politica, ma fondamento della democrazia. Il giudice è terzo, imparziale, indipendente dal pubblico ministero. 

Nessuno dubita della giustizia australiana, perché la fiducia nasce da un equilibrio limpido: chi accusa lo fa con rigore, chi giudica con distacco. Due ruoli distinti, due percorsi separati, nessuna commistione.

Il risultato è semplice e rivoluzionario insieme: una giustizia che gode del rispetto dei cittadini, non del loro sospetto. Un modello che dimostra come l’indipendenza dei poteri non sia una minaccia, ma la migliore garanzia di libertà.

 Il sistema giudiziario australiano, erede della tradizione di common law britannica, si fonda su una divisione netta dei poteri e su un modello di giustizia avversariale: accusa e difesa si confrontano davanti a un giudice che non appartiene né all’una né all’altra parte.

I giudici (Judges) fanno parte del potere giudiziario; i pubblici ministeri (Prosecutors) appartengono al potere esecutivo, sotto la supervisione del Director of Public Prosecutions (DPP), organo indipendente che agisce in nome dello Stato, ma senza vincoli politici. Il giudice non indaga, non accusa, non partecipa all’istruzione del processo: giudica, e basta. Il pubblico ministero rappresenta l’interesse pubblico, ma non appartiene alla magistratura. Sono avvocati dello Stato, non magistrati, e la loro carriera è interna al DPP, valutata per merito e risultati, non per appartenenze associative o correnti.  Questa separazione totale impedisce conflitti d’interesse e garantisce che chi giudica non sia mai stato, nemmeno culturalmente, “dalla parte dell’accusa”.

Votare SÌ non significa indebolire la magistratura, ma renderla più autorevole. Un giudice che non ha mai fatto il pubblico ministero sarà più libero nel giudicare. Un PM che non ambisce a diventare giudice sarà più concentrato nel cercare la verità, non la carriera.

Oggi troppi italiani percepiscono i tribunali come campi di battaglia ideologica, dove il sospetto politico pesa più del merito. Separare le carriere significa restituire fiducia e trasparenza, non togliere indipendenza. È una riforma che libera tutti: i cittadini dal sospetto, i magistrati dal pregiudizio, lo Stato dal dubbio. In Australia nessun giudice può aver lavorato come pubblico ministero senza prima dimettersi, e viceversa. 

Questo evita la cultura di corpo che in Italia ha finito, negli anni, per avvolgere l’intero sistema giudiziario: colleghi che si conoscono, si valutano, si alternano tra accusa e giudizio, magari con lo stesso linguaggio e la stessa formazione. È un terreno fertile per la diffidenza, non per la giustizia. Separare le carriere significa invece costruire un sistema dove chi controlla non è mai controllato dallo stesso potere, e dove il giudice non è chiamato a difendere la reputazione di un collega, ma soltanto la verità dei fatti.

In Italia giudici e PM appartengono allo stesso ordine e sono governati dal medesimo Consiglio Superiore della Magistratura. È un modello che nasce con buone intenzioni – tutelare l’indipendenza – ma che, col tempo, ha generato un’ambiguità culturale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: processi eterni, sfiducia, politicizzazione, e un sistema che difende se stesso più che i cittadini. In Australia, invece, la separazione è talmente naturale da non essere nemmeno oggetto di dibattito politico. È parte del DNA democratico, come la presunzione d’innocenza o il diritto alla difesa.

Il referendum non è un plebiscito per o contro qualcuno: è una chiamata alla responsabilità. Io voterò SÌ perché credo che la giustizia italiana debba tornare a essere un luogo di fiducia, non di sospetto. Voterò SÌ perché ho visto come funziona un sistema dove il giudice è davvero terzo e la giustizia è davvero uguale per tutti. E voterò SÌ perché la giustizia non deve avere colore politico, ma solo un volto: quello della verità e della libertà.  

Come recita un antico principio anglosassone: “Justice must not only be done, but must also be seen to be done.” La giustizia non deve solo essere fatta, ma deve anche apparire tale agli occhi di tutti.