Non si esporta la democrazia con le bombe

L’intervento americano e della Nato in Afghanistan era iniziato nel 2001 quando, per rispondere all’attentato alle Torri Gemelle di New York, il presidente americano George W. Bush lanciò una offensiva senza precedenti per stanare i Talebani nascosti nei loro santuari, in Afghanistan.

Inizialmente, poteva sembrare una passeggiata sulle dune, una guerricciola da poco che si sarebbe conclusa con la schiacciante vittoria della coalizione capitanata dagli Stati Uniti. Ma la guerra è durata vent’anni, con miglia di morti e miliardi di spese.

La coalizione ha pure allestito un esercito afgano di 300.000 uomini che, incredibilmente, dopo 20 anni di addestramento da parte delle forze militari che si ritengono le migliori al mondo, non sia o per meglio dire non abbia voluto fermare l’avanzata di 60.000 Talebani che hanno preso la capitale Kabul con la stessa facilità con cui si raccoglie un fiore.

Ciò mi fa credere che non c’era nessuna intenzione di fermare l’ondata che avrebbe riportato la nazione allo stato di Emirato Islamico. Per quanto dolorosa sia la fine un progetto che si prefiggeva di portare fuori dal Medioevo un popolo sperduto in aree prevalentemente desertiche, ora riprenderà vigore la guerra civile che, in Afghanistan, dura ininterrotta da quarant’anni.

Ne soffriranno le minoranze etniche, ne soffriranno le donne, ne soffrirà chiunque non vorrà sottostare alle leggi del Corano. La stampa ha dato molto risalto all’esodo delle forze dell’occidente, scene di panico all’aeroporto di Kabul che mi hanno riportato indietro al 1975, quando gli americani lasciavano il Vietnam.

L’America ha voluto imporre il proprio modello di vita e, come nel Vietnam, le guerre civili e rivoluzionarie non si vincono con le armi. Un popolo ha diritto di cacciare l’invasore. Qui non si tratta di decidere chi è nel giusto o cosa sia sbagliato, ma se un popolo abbia il diritto di scegliere il proprio modello di vita, la propria religione.

Per coprire l’infamia della ritirata, durante una conferenza alla Casa Bianca, il presidente Americano Joe Biden ha detto: “Abbiamo speso oltre 1.000 miliardi di dollari in 20 anni. Abbiamo addestrato e dotato di attrezzature moderne oltre 300.000 forze afgane. Abbiamo registrato migliaia di morti e migliaia di feriti.

Devono combattere per se stessi, combattere per la loro nazione”. Quello che Biden ha dimenticato di menzionare è che l’ammutinamento delle forze afghane è iniziato quando gli Stati Uniti, per ottenere una tregua che consentisse di ritirarsi senza perdite, avevano aperto un canale di trattative con i Talebani.

Così facendo, hanno delegittimato il governo in carica e i Talebani hanno potuto riprendere il controllo del Paese. Inoltre, il presidente americano ha dimenticato di dire che a morire in Afghanistan non sono stati solo i militari, ma anche le 170mila vittime afghane.

Una guerra che ha lasciato la popolazione sempre più impoverita e oggi preda anche della pandemia senza avere risorse per contrastarla mentre le donne, che avevano sperato nella loro liberazione, negli ultimi anni hanno pagato a duro prezzo la rivendicazione dei loro diritti e ora… tornano in clandestinità.

E ancora, Biden ha dimenticato di menzionare che della coalizione USA/NATO in Afghanistan faceva parte anche una missione italiana costata la vita a 54 militari e oltre 700 feriti.

Oltre al sangue, le spese affrontate: 8,7 miliardi in due decenni per finanziare prima “Enduring Freedom” e poi “Resolute Support”. Venti anni di lotta pagati a caro prezzo.

“I responsabili non sono solo gli Stati Uniti – scrive Giuliana Sgrena per l’Ansa – ma tutti coloro che hanno inviato truppe in Afghanistan, che hanno dato speranze di libertà a un popolo da decenni in guerra, che ora abbandonano la popolazione civile inerme a nuovi predatori: Russia, Cina e Turchia, che cercheranno di occupare il vuoto lasciato dal ritiro.

Responsabile è anche l’Europa che spudoratamente chiede il rientro di tutti i profughi afghani, per riconsegnarli a un regime oscurantista e medioevale che li aveva costretti alla fuga”. “Penso che l’Afghanistan sia l’esempio del livello del nostro mondo – scrive il nostro collaboratore Carlo Ferri – si è cercato di vendere cavolate etiche e buoniste per decenni, inneggiando alla liberazione dell’Afghanistan, ma son tutte fandonie per non raccontare che bisogna spendere soldi per i militari e per le grandi imprese di costruzione affinché riedifichino quanto distrutto.

Poi si ruba tutto il rubabile: materie prime, conti all’estero, depositi e risorse pubbliche privatizzate, banche cui mettere il cappello e ci lasciano macerie.

Le macerie sociali, umane ed etiche sono il risultato perfetto di sempre: non avendo costruito nulla tutto torna peggio di prima, ma il capitalismo ha questo compito: da quando una accozzaglia di ipocriti infami e avidi può costruire democrazia e paesi civili?”

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