Il 15 Febbraio di 124 anni fa, nel rione Sanità di Napoli nasceva Totò, al secolo Antonio de Curtis – abbreviazione del lunghissimo nome completo, frutto dei diversi titoli gentilizi acquisiti -, anche soprannominato “il principe della risata”.
Un attore unico, di diritto tra i più grandi che l’Italia abbia mai avuto; comico geniale, la perfetta incarnazione delle due maschere teatrali della commedia e della tragedia, stati d’animo che lui sapeva condensare perfettamente nelle gestualità di una figura clownesca; un fine giullare capace di intrattenere la platea in modo magistrale, e al tempo stesso sempre velato da un contegno signorile, quasi aristocratico, ma mai superbo. Un principe – di fatto – che si travestiva da funambolo per calarsi nella scena nel ruolo di un acrobata perennemente in bilico tra uno stupefacente volteggio drammaturgico e un geniale carpiato comico.
Oltre al grandissimo talento mimico, alla sapienza nell’utilizzo del corpo come formidabile mezzo di comunicazione, ad esaltare la genialità del personaggio di Totò concorreva una straordinaria capacità di adoperare la lingua parlata, di servirsi delle parole e servirle di rimando, impiegando la voce stessa come suo peculiare mezzo di trasmissione dell’arte scenica.
Come un pittore crea a colpi di pennello, lui creava attraverso le parole: cesellava ogni frase a suo piacimento, modellava divertenti giochi di parole – “lei è un paziente che non ha pazienza! E che paziente è, abbia pazienza!” Totò diabolicus; “a quest’ora il questore è in questura?” Totò le mokò; “dico bene? Bene dico? Bene detto.” rivolto, in sequenza, a tre diverse persone in I ladri -, improvvisava fantasiosi motti di spirito e donava un ritmo armonico ad ogni sequenza discorsiva, senza mai cadere nella volgarità. Ancora oggi, immergendosi con animo bendisposto nei dialoghi di quei film, si può percepire una calda e viva musicalità, eufonica e quasi rasserenante; come una sorta di balsamo per le affezioni malinconiche dello spirito.
Questo talento, sicuramente travolgente e caratteristico, nel provocare il riso, ha quasi finito per offuscare la sua raffinatissima capacità di recitazione; nondimeno ha messo in secondo piano un grande merito, spesso sottovalutato, che tutta la produzione artistica di de Curtis ha espresso: la particolare attenzione riposta nell’utilizzo e nella valorizzazione della lingua italiana.
Nell’Italia dell’immediato dopoguerra, sofferente di un basso indice di scolarizzazione, la lingua nazionale non era ancora padroneggiata allo stesso modo dall’intera popolazione; gli idiomi dialettali, soprattutto nelle aree più rurali, risultavano ancora utilizzati in modo attivo. Grazie al miglioramento del livello di scolarizzazione e all’industrializzazione del Paese, già a partire dai primi anni cinquanta la comprensione e l’utilizzo dell’italiano andarono via via sempre aumentando, fino alla sua completa e definitiva consolidazione. Un ruolo importante in questo processo – va sottolineato – lo ha rivestito anche l’avvento e la diffusione della televisione.
Proprio in questo senso, la produzione cinematografica del de Curtis ha compiuto un’opera di vera e propria esaltazione della lingua italiana. Come autore di poesie e testi di canzoni l’attore napoletano ha effettivamente fatto un uso più attivo del dialetto, ma quasi mai esclusivo: alcuni componimenti venivano realizzati del tutto in italiano, oppure, come nel caso della celebre poesia “’A livella”, in una commistione tra quest’ultimo e il napoletano.
Diversamente invece per i film, nei quali, ad eccezione di qualche rara parola in napoletano, quella italiana era sempre l’unica lingua parlata da Totò e non è raro trovare momenti di avversione tanto verso l’eccesso di esotismi e forestierismi del linguaggio, quanto verso l’inopportuno utilizzo del volgare – come ne I Due colonnelli, quando Totò rimprovera un soldato pugliese che pronuncia “varva” per “barba”, esclamando: “e parla italiano!”.
Altresì In Totò e i re di Roma, si rivolge così a un contadino veneto: “parli italiano. Si spieghi”, e ancora: “è proibito parlare in dialetto”. Oltre a ciò, bisogna evidenziare che de Curtis, in quelle pellicole parlava spesso in modo intenzionalmente forbito, con un registro linguistico molto elevato, ricco d’una grande varietà di vocaboli, tra i quali spiccavano spesso e volentieri, tra il serio e il faceto, termini aulici e arcaici – in parte funzionali alla comicità, in parte, è plausibile, con l’intenzione di valorizzare ulteriormente i dialoghi.
Gli esempi sono numerosi e forse inesauribili: “dianzi” o “testé” ed “eziandìo”, due avverbi e una congiunzione ripetuti in moltissimi film di Totò; allo stesso modo quei “fa d’uopo” e “all’uopo”, che si ripetono costantemente. Molto utilizzati anche i pronomi “seco” e “meco”, oppure “eglino” come plurale di “egli” e “istesso” invece di “stesso”. Ancora: “deggio” come sinonimo di “devo”, la congiunzione “laonde”, i sostantivi “querimonia”, “fantolino”, “manutengolo” e “lenone”.
L’esempio forse più celebre però, è il trittico di sostantivi, sinonimi di “sciocchezze, cose di poco conto”, pronunciati da Totò quasi sempre in sequenza: “bazzecole, quisquilie, pinzillacchere”. Proprio l’ultimo dei tre, ed è questa la cosa più interessante, è un neologismo creato dallo stesso de Curtis – forse da lui, forse da qualche autore: come detto il confine è sempre molto labile e incerto – e divenuto un lemma di tutti i dizionari italiani; il vocabolario Treccani, al riguardo riporta: “è voce coniata scherz. dall’attore Antonio De Curtis, in arte Totò, intorno al 1930”.
In conclusione, non potremo che essere per sempre grati all’artista Antonio de Curtis, per averci regalato il suo genio comico, le sue recitazioni uniche, per regalarci ancora ore di risate e averci lasciato una sincera dichiarazione d’amore per la nostra lingua italiana.
Be the first to comment