Il “made in Italy” e l’illusione della qualità

Personalmente sostengo la tesi che non è certo l’origine di un prodotto a renderlo qualitativamente di pregio. Inoltre nella situazione in cui siamo ha contribuito senza dubbio anche la politica agricola comune (PAC). Ma non sempre in modo negativo a mio parere.

L’ho detto commentando l’articolo “Pasta De Cecco: se il grano non è tutto italiano, è corretto scrivere made in Italy?”: il mercato di oggi non è il mercato di qualche decennio fa. 

Sono cambiati i volumi e sono cambiati gli attori. Possiamo discutere se sia meglio o peggio… ma è così e in questo contesto ci si deve muovere.

Come può la piccola Italia competere nel settore primario con colossi come Cina, Argentina, USA, Canada, Australia, Russia? A mio parere non può anche per evidenti limiti territoriali. Per questo io dico che bisognerebbe investire in settori diversi dal primario. L’esempio della pasta: non è forse meglio per l’eccellenza italiana che le aziende puntino a reperire grano di prima qualità per realizzare il proprio prodotto piuttosto che puntare sull’incentivazione alla coltivazione di grano nazionale che qualitativamente potrebbe essere inferiore? E poi: il grano è coltivato in Italia, ma le sementi da dove vengono? Dove sono state selezionate? Sono italiane o no? 

E poi ancora: se incentivando la coltivazione di grano si arrivasse a coprire il nostro fabbisogno, cosa facciamo con tutte le altre materie prime per le quali il nostro fabbisogno non è soddisfatto? Bisogna superare a mio parere il concetto distorto di “made in Italy” che abbiamo qui e cominciare a ragionare semplicemente alla realizzazione di prodotti di eccellenza attraverso materie prime eccellenti.

Faccio un esempio un po’ fuori tema ma molto chiaro secondo me: nella nazionale di calcio vorremmo che giocassero i migliori giocatori di tutta Italia – migliori materie prime in assoluto – o vorremmo che ci giocassero solo quelli della squadra per cui tifiamo – materie prime italiane? 

Alessandro

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