Due importanti federazioni sportive internazionali hanno adottato di recente nuove misure restrittive per regolamentare la partecipazione di atlete transgender (che si identificano cioè come donne pur essendo nate di sesso maschile) in ambiti professionistici femminili.
Negli sport acquatici la FINA ha escluso dalle competizioni le atlete trans che non hanno iniziato le terapie per la transizione entro i 12 anni d’età, mentre la Rugby League (il rugby a 13) le ha escluse completamente fino a quando non avrà completato l’elaborazione di un nuovo regolamento basato su studi ancora in corso.
Precedentemente, anche la federazione internazionale del ciclismo aveva cambiato i propri regolamenti, mentre la FIFA l’organo che governa il calcio maschile e femminile sta rivedendo le sue regole e fin quando non arriverà a conclusioni più o meno definitive valuterà caso per caso.
Nell’atletica, invece, si è tornati a parlare di Caster Semenya, mezzofondista sudafricana che vive come donna fin dalla nascita e si identifica come tale, ma ha alti livelli di testosterone nel sangue e rientra nella definizione di intersessualità. Semenya al centro di uno dei casi più complicati in questo senso ha rivelato di recente che da giovane si offrì di mostrare i suoi genitali femminili pur di poter gareggiare.
Nell’ultimo anno si è parlato perlo più di due casi che hanno dato un’idea della complessità del tema.
Uno ha riguardato Laurel Hubbard, sollevatrice neozelandese che alle Olimpiadi di Tokyo è diventata la prima atleta trans nella storia dei Giochi moderni. La qualificazione di Hubbard che aveva iniziato il percorso di transizione intorno ai trent’anni era stata criticata in particolar modo dalle altre sollevatrici, che ritenevano ingiusta la sua presenza, così come i successi ottenuti dal 2013 in poi, ovvero con il passaggio dalle categorie maschili a quelle femminili.
A Tokyo, però, Hubbard era stata una delle prime atlete eliminate nella sua categoria, e successivamente si era ritirata.
L’ultimo caso è anche il più discusso attualmente, e potrebbe aver spinto la federazione del nuoto a intervenire come ha fatto nel regolamento.
Lia Thomas è un’atleta trans americana che dal 2020, dopo essere passata dalle categorie maschili a quelle femminili del nuoto universitario, sta facendo parlare di sé per le vittorie, spesso schiaccianti, che ha ottenuto: è diventata per esempio la prima nuotatrice trans a vincere un titolo nazionale nella storia dello sport universitario americano.
La sua storia è discussa a livello nazionale negli Stati Uniti, tanto che lo scorso febbraio il governatore repubblicano della Florida, Ron DeSantis, aveva proclamato vincitrice la seconda classificata (nata in Florida) di una gara in realtà vinta da Thomas.
Dopo i successi universitari, Thomas puntava alla qualificazione alle prossime Olimpiadi. Con le nuove regole introdotte dalla FINA non potrà più farlo, perché ha iniziato il suo percorso di transizione tramite terapia ormonale sostitutiva soltanto nel 2019, intorno ai vent’anni. Potrà però continuare a gareggiare in ambiti universitari, dato che lì valgono norme ancora diverse, stabilite autonomamente dalla NCAA, l’organizzazione che gestisce i programmi sportivi universitari.
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