Parlando con Seydou, bel ragazzo della Costa d’Avorio, mi dice di essere fuggito dalla guerra civile che, da tempo, affligge il suo Paese.
La popolazione della Costa d’Avorio è formata da 62 gruppi etnici con religioni, tradizioni e caratteristiche differenti tra loro. Seydou mi dice di appartenere agli Akan, il gruppo etnico maggiore, la cui gente vive prevalentemente nelle regioni orientali e centrali dello Stato.
Atri gruppi principali sono i Voltaici e i Mandé originari del Nord, mentre i Kru e i Mandé del Sud sono quelli che vivono nelle terre della zona meridionale.
Dopo l’abolizione della schiavitù, la Costa d’Avorio fu invasa da ondate di migranti che giungevano dai paesi limitrofi, attratti da una legge nuova, quella di libera proprietà che regalava la terra a chi si assumeva l’onere di coltivarla.
In teoria, il tutto avrebbe dovuto funzionare: non ci sarebbero state più terre incolte, la produzione del cibo sarebbe diventata abbondante per l’intera popolazione, i guadagni potevano diventare capitale d’investimento e tutti ne avrebbero beneficiato, ma… non andò proprio così perché chi aveva già dei terreni manifestò l’ingordigia di volerne altri e specialmente i nativi più anziani si sentirono defraudati dai nuovi arrivati.
Ciò fu la causa che scatenò sia la guerra civile che il colpo di Stato dell’anno 2000, con la conseguente divisione tra Nord Musulmano e Sud Cristiano. Seydou non si riconosce né nel gruppo dei nordisti, né in quello dei sudisti. Egli osserva una religione tradizionale, basata sulla venerazione degli antenati, avrebbe voluto studiare per potere laurearsi ma, durante una guerra civile, è noto a tutti che o si sta da una parte o si sta dall’altra, non c’è alcuna via di mezzo.
Da tutto ciò, la decisione di emigrare verso l’Europa, attraverso il Mediterraneo dando fondo a tutti i suoi risparmi e, aggiungendo gli aiuti degli abitanti del suo villaggio, Seydou riesce a racimolare metà della somma necessaria.
L’altra metà gli è anticipata dai trafficanti stessi che, previo giuramento sullo spirito dei suoi antenati, convengono col giovane Seydou l’obbligo di essere ripagati dopo il suo arrivo in Italia con il primo lavoro che avrebbe trovato.
Naturalmente, per tutelare l’investimento e per evitare la fuga del giovane non appena giunto allo sbarco, lo scafista che gli ha fatto il prestito gli ha sottratto i documenti personali.
Durante il viaggio verso la Libia, attraversando il deserto del Sahara, Seydou viene derubato. In Libia è incarcerato e obbligato a lavorare gratuitamente per pagare vitto e alloggio al carcere.
Pertanto, ogni mattina, è prelevato con i suoi compagni di sventura e, insieme, sono portati a lavorare nei campi.
Dopo due anni di soggiorno in Libia, nel pieno della notte, è trasportato fino ad arrivare ad una spiaggia deserta e, con altre 130 persone di varie nazionalità, viene stipato su un gommone malconcio che, immediatamente, prende il largo verso un destino ignoto.
Solo successivamente Seydou apprenderà che, per infastidire l’Unione Europea e in particolare l’Italia, il governo libico autorizza il pagamento di tangenti a quegli scafisti che, regolarmente, spediscono barconi di disperati verso l’Europa.
Sette giorni in mare.
Solo mare davanti e solo mare dietro.
Anzi no; a poco a poco le cose crescono: da una parte mare e sole, dall’altra pianti, paura, disperazione e gente che muore attorno a lui. Si rischia la deriva.
Salvato da Aquarius Dignitus, una ex nave oceanografica registrata in Liberia per conto di SOS Méditerranée in collaborazione con Medici senza Frontiere, Seydou è felice e pensa che presto sarà in Italia. Ma sulla nave lo informano che i porti sono chiusi e Malta ha già declinato il permesso di attracco. Intanto sulla nave vengono rifocillati, ma le scorte scarseggiano e l’acqua è quasi finita.
Dopo tre giorni, una motovedetta maltese scarica sulla nave 2000 bottiglie d’acqua, ma niente cibo solido. È così che Seydou resta sulla nave per altri sette giorni in attesa di sbarco.
Finalmente il porto di Trapani li accoglie e Seydou sbarca con tutti quelli che, come lui, ce l’hanno fatta a toccare terraferma; qui viene fotografato, catalogato, gli vengono prese le impronte digitali e fatto salire su un autobus che lo porta al centro profughi Hotspot di Trapani Milo dove, con altri 400 malcapitati come lui, aspetta di essere ricollocato.
Passano i giorni, le settimane e i mesi. A parte il disagio di vivere confinato in spazi ristretti, nell’Hotspot sono serviti pasti regolari, ci sono le docce e i servizi, ma le giornate sembrano non passare mai e, ovviamente, non si guadagnano i 35 euro al giorno come la maggioranza degli italiani crede; i soldi, dice il giovane immigrato, vanno direttamente all’ente gestore del centro.
Con altri tre amici di sventura, in una notte senza luna, Seydou fugge dal campo. Non è difficile perché le barriere di cinta del centro profughi sono piene di buchi.
Rubano tre biciclette e si separano, ognuno decide per conto proprio dove andare e cosa fare. Dopo due giorni, il ragazzo con la pelle scura arriva a Marsala dove prova a cercare lavoro in una salina, ma nessuno lo assume perché è privo di documenti.
Così egli, che nella sua terra aveva sognato di frequentare l’università, ora è costretto a lavorare in nero raccogliendo prodotti agricoli per 2 euro all’ora senza calcolare la percentuale da pagare al caporale che gli aveva trovato il lavoro. Con i soldi che guadagna non riesce nemmeno a sfamarsi e a pagare l’affitto… una baracca di lamiere e cartoni inchiodati ad una struttura di legno.
Da pagare Seydou ha pure il prestito che aveva ottenuto facendo un giuramento e per il quale, se non l’avesse rispettato, sarebbe stato perseguitato dallo spirito dei suoi antenati per tutta la vita.
A questo punto i creditori lo aiutano trovandogli un lavoro non tanto difficile e ben remunerato: lo spacciatore. L’alternativa sarebbe quella di essere fatto a pezzi se non in grado di ripagare il debito oltre all’onta che si sarebbe abbattuta sulla sua famiglia e sul suo villaggio, proprio su quelle persone che avevano creduto in lui prestandogli tutti i loro risparmi.
Seydou non sa cosa fare: vorrebbe andare alla Polizia e denunciare tutto, ma sa di essere illegale essendo evaso dal campo profughi dove era in attesa di documenti. Lo assale la paura di essere rimandato indietro e dovere affrontare la sua famiglia e il suo villaggio che avevano posto tanta fiducia in lui.
Ma per il giovane Seydou l’ostacolo principale non è tanto il debito da pagare quanto le certe e ritorsive conseguenze che la sua famiglia avrebbe subito indubbiamente da persone senza scrupoli.
Il ragazzo è consapevole di parlare a stento l’italiano e di non sapere nemmeno come fare nel caso si decida veramente a fare una denuncia.
E poi, gli crederanno?
Non ha soldi e non conosce nessuno. E, ammesso che i Carabinieri comprendano la sua lingua, che peso potranno avere le parole di un immigrato clandestino privo del documento d’identità?
E come può opporsi agli scafisti, una delle mafie più agguerrite e meglio organizzate del mondo?
Seydou è convinto che, se non ripaga il debito, lo faranno sparire in un campo di patate, oppure bruciato vivo dentro la baracca o sepolto in qualche discarica…
Intanto che parla, si è fatto tardi, il sole è già tramontato da oltre un’ora, mi dice che deve vedersi con una persona di Medici senza Frontiere che ha conosciuto sull’Aquarius.
– Ci vediamo domani? – gli chiedo mentre inforca la sgangherata bicicletta.
– A domani.
L’ho aspettato.
Invano.
Ho provato anche a chiedere in giro, ma nessuno sa niente di Seydou: è come non sia mai esistito.
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