Nel suo libro *Sterilità e fecondazione in vitro – Tra scienza, tecnica e etica*, padre Giorgio Carbone esplora le cause della sterilità e dell’infertilità, approfondendo la distinzione tra i due concetti e gli effetti che queste condizioni possono avere sul piano emotivo e relazionale delle coppie. La sterilità si manifesta come incapacità di concepire dopo un anno di rapporti regolari, mentre l’infertilità si riferisce alla difficoltà di portare avanti una gravidanza. Entrambi i fenomeni, secondo le stime, interessano circa il 15% della popolazione mondiale in età riproduttiva.
La fecondazione artificiale, per padre Carbone, non è solo moralmente inaccettabile, ma offre risultati poco soddisfacenti, con un basso tasso di successo: solo il 16% delle coppie che vi si sottopongono raggiunge il parto. Inoltre, comporta rischi per la madre e il nascituro, oltre a generare ansia e possibili crisi depressive. Gli embrioni congelati, secondo il teologo, vivono in una condizione di ingiustizia senza soluzione, vittime di un processo che non considera la dignità umana e trasforma il figlio in un prodotto alla mercé della tecnologia.
Tra le cause della sterilità, padre Carbone include fattori come l’aumento dell’età per la prima gravidanza, stili di vita malsani, l’uso di contraccettivi e l’aborto, oltre a cause organiche e genetiche. A differenza delle tecniche di fecondazione in vitro, che rimuovono l’atto naturale della procreazione, i trattamenti per risolvere l’infertilità possono includere terapie ormonali e interventi chirurgici per migliorare le condizioni naturali della fertilità, soluzioni eticamente accettabili in quanto non interferiscono con l’atto coniugale.
Padre Carbone suggerisce anche l’utilizzo di metodi naturali per aiutare le coppie a comprendere e valorizzare la propria fertilità in modo condiviso e rispettoso. Anche l’inseminazione intrauterina (IUI) potrebbe essere moralmente accettabile se concepita come supporto all’atto coniugale naturale. In conclusione, il volume di padre Carbone sostiene che generare un figlio non può ridursi a un atto tecnico, poiché implica un coinvolgimento umano e affettivo profondo, che si perde nei metodi artificiali, i quali riducono il bambino a oggetto del desiderio adulto e alimentano, in ultima analisi, una “cultura della morte”.
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