Tutti i principali e più diffusi vocabolari dell’italiano contemporaneo, ad eccezione del Treccani 2014, registrano il verbo cazziare col significato di ‘rimproverare duramente’, marcandolo generalmente come “regionale-meridionale”. Alla stessa famiglia lessicale di cazziare appartengono il sostantivo cazziata ‘duro rimprovero’ e l’accrescitivo cazziatone, i quali sono però presenti nei dizionari già a partire dagli anni Ottanta del Novecento. Il verbo cazziare e il sostantivo cazziata sono in effetti parole d’origine meridionale, verosimilmente napoletana; si trovano infatti già nei vocabolari dialettali partenopei dell’Ottocento: “Cazziare, Cazzià. Dir villanie, Rimprocciare, Rimproverare”,”Cazziare.
Sgridare con ira e improperi”. Per quanto riguarda l’etimologia, l’Etimologico di Alberto Nocentini scrive: “dal napol. cazzià, der[ivato] di cazzo nel senso primitivo di ‘infuriarsi’ con motivazione analoga ad incazzarsi”. Tuttavia, se la base etimologica (cazzo) è trasparente, un po’ meno chiara ci pare la motivazione semantica. A nostro avviso, l’uso di cazziare per ‘rimproverare’ trae invece origine da una metafora sessuale: il meridionale cazzià(re) è infatti un verbo formato da cazzo (‘membro virile’) più il suffisso iterativo-intensivo -ià(re) (lo stesso di mazziare ‘colpire, picchiare’, da mazza; paccariare ‘schiaffeggiare’, da paccaro ‘schiaffo’; ecc.); si parte quindi da un significato concreto, ovvero ‘possedere sessualmente (in modo rude, con violenza)’, che scivola naturalmente in un traslato di tono volgare ‘trattare, sgridare rudemente qualcuno’.
Al di là delle questioni di carattere etimologico, va detto che, stando anche ai dati ricavabili dalla rete, cazziare, cazziata e cazziatone risultano ormai termini d’uso non solo meridionale, ma più ampiamente italiano, soprattutto nella parlata dei giovani, sebbene siano da considerarsi senz’altro di registro colloquiale assai basso. Tuttavia, capita talvolta di sentire la parola anche in contesti pubblici: in un’intervista del 2013 rilasciata al noto conduttore Fabio Volo, durante la trasmissione “Il volo del mattino” di Radio Deejay, Matteo Renzi (allora sindaco di Firenze) – il cui linguaggio si caratterizza per il ricorso frequente e consapevole a modi e forme del parlato giovanile –, commentando un suo incontro con Giorgio Napolitano, dichiarò di non essere stato “cazziato” dal capo dello Stato sulle questioni dell’amnistia e della legge elettorale.
Va anche notato che, nonostante i vocabolari abbiano registrato il verbo cazziare solo nel corso degli anni Duemila, il suo uso a livello nazionale si è diffuso certamente prima, come mostra, ad esempio, questo brano tratto dal romanzo Elianto (1996) dello scrittore bolognese Stefano Benni: “Cazziò duramente gli agenti della scorta che, gialli come limoni, vomitavano fuori dagli appositi spazi” (cito dal GDLI, Supplemento 2004), oppure come documenta l’utilizzo nei giornali (vedi l’articolo sportivo intitolato Bravo Mr. Vialli, il gioco all’italiana trionfa a Londra, pubblicato nel quotidiano “La Repubblica” del 19 febbraio 1998: “Per la verità, non è che a vederlo così si direbbe che quel pelato là davanti è il capo della ciurma: non lo vedi mai dare una dritta, alzare un ditino, cazziare qualcuno). Ma come si spiega questa diffusione nazionale di cazziare, cazziata e cazziatone?
Ebbene, questi termini si sono diffusi inizialmente attraverso l’ormai abolito servizio di leva, ovvero sono entrati nella lingua comune dal gergo delle caserme. Già in un articolo del 1967 sulla lingua di caserma, Lorenzo Renzi registrava nel suo catalogo di parole gergali (che includeva anche altre voci poi passate al lessico comune, come lavativo ‘scansafatiche’ o puttanata ‘errore, sciocchezza’) il termine cazziare ‘rimproverare, fare la ramanzina’ come “universale” (cioè proprio di tutte le caserme; con una variante cazziotare propria degli alpini veneti), insieme a cazziata e “più frequente” cazziatone ‘ramanzina’, osservando: «Cazziatone ha sostituito quasi del tutto il vecchio cicchetto, che ha il vantaggio di essere parole “pulita” e perciò è ancora d’obbligo in certe occasioni».
È noto che, tra i fattori che hanno concorso, fin dai primi decenni postunitari, alla diffusione di una lingua comune, vi è stata la creazione di un esercito nazionale, quindi l’istituzione del servizio militare obbligatorio, che, “allontanando per un certo tempo gli individui dai luoghi di origine e immettendoli in ambienti linguistici diversi ed eterogenei, ha concorso ad indebolire le tradizioni dialettali” (cit. dalla Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro, p. 106). Il gergo di caserma (o meglio un gergo di caserma, in parte nazionale e in parte caratterizzato localmente) è stato infatti condiviso dalla quasi totalità della popolazione maschile dal 1861 al 1° gennaio 2005; la gergalità, variamente assorbita nel periodo di ferma, è stata quindi in parte esportata anche nella lingua comune, con una sedimentazione in diacronia che copre tutti i 144 anni di leva obbligatoria (o naia, appunto, come si dice a partire da un uso gergale diffuso tra gli alpini e poi divenuto popolare dopo la prima guerra mondiale).
Gli esempi di parole di caserma entrate nella lingua comune sono numerosi, con connotazioni locali evidenti soprattutto tra Ottocento e inizi del Novecento, quando era marcata la prevalenza di ufficiali piemontesi e napoletani provenienti dai principali eserciti preunitari: sono, ad es., piemontesismi battere la fiacca, cicchetto, marcare visita,piantare una grana, ramazzare, mentre più rari sono i napoletanismi, come arrangiarsi o fesso. Il verbo cazziare e il sostantivo cazziata, da cui cazziatone, sono dunque napoletanismi (o comunque meridionalismi) penetrati nel vocabolario dei militari di tutta Italia nella seconda metà del Novecento, attecchendo facilmente in un ambiente, quello della caserma, dove le intemerate, le lavate di capo, sono sempre state all’ordine del giorno.
Da qui questi termini si sono via via diffusi anche nell’uso comune, favoriti certamente dalla loro forza espressiva, anche se – ed è bene ripeterlo – sono da considerare (così come tante altre parole appartenenti alla stessa, ampissima, famiglia etimologica, quali cazzata, cazzuto, incazzarsi, ecc.) propri sì di un registro colloquiale, ma assai basso e volgare.
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