I primi esempi di questo modo di dire compaiono intorno alla metà dell’Ottocento, forse per influenza dei Promessi sposi, ai quali si deve comunque la notorietà del proverbio.
In questi ultimi tempi diverse persone attente e sensibili ai fatti di lingua si sono rivolte al servizio di Consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca per sapere se sia corretto dire col senno del poi, o non piuttosto col senno di poi.
Ai più la questione potrà apparire di scarso rilievo e del tutto trascurabile: in fondo si tratta di una scelta a prima vista piuttosto semplice fra un avverbio (di poi) e un avverbio sostantivato (del poi), apparentemente senza grosse conseguenze sul senso complessivo e il tono dell’espressione: col senno di poi ‘col senno che si manifesta successivamente, a posteriori’ ~ col senno del poi ‘col senno del tempo venturo’.
Certuni la riterranno addirittura una questione oziosa: la soluzione “giusta” non la si legge già in ogni vocabolario? Eppure la domanda è interessante, perché, confermando che continua a persistere nell’uso contemporaneo un’irriducibile oscillazione fra le due varianti, rivela la forte tendenza, tutta moderna, a voler superare tale incertezza e a puntare su una forma univoca, fino al punto da appellarsi alla Crusca.
Per cominciare va detto che l’espressione in questione, come avviene anche in altri casi, è nata dalla costola di un proverbio che un tempo era abbastanza noto: Del senno di poi ne son piene le fosse. Lo si trova attestato nella seconda metà del Cinquecento in diversi scrittori toscani e, naturalmente, nello sterminato repertorio di proverbi del Cinquecento e l’inizio del Seicento. Nell’Ottocento sarà ripreso, tra gli altri, anche da Manzoni nel XXIV capitolo dei Promessi sposi, cosicché dopo di allora, almeno fin quando si è letto il romanzo per intero, poté godere di una più larga circolazione.
Nelle varie attestazioni scritte che ne abbiamo il proverbio si presenta talvolta con delle piccole varianti nella sua seconda parte: omissione del ne, piene sostituito con ripiene, ecc. Ma nella prima parte esso resta immutato: del senno di poi. In tal forma è registrato in tutti i vocabolari, che in ciò seguono i nostri maggiori scrittori.
Il modo di dire col (del) senno del poi, come si è notato, deriva dal proverbio e ne raccoglie l’essenza. Tale fenomeno derivativo (da proverbio a modo di dire) non è insolito e poggia sul fatto che talora i proverbi, pur rimanendo tali, si presentano per brevità in forma scorciata: a buon intenditore, a caval donato, campa cavallo!, carta canta, gallina vecchia, occhio non vede, perseverare è diabolico, tra il dire e il fare, val più la pratica, ecc. In certi casi tali scorciature si trasformano in modi di dire proverbiali che vengono impiegati nella sintassi della frase come un qualsiasi altro elemento del discorso.
Dobbiamo quindi chiederci perché dal proverbio, che fino allora presentava la forma del senno di poi, sia scaturita una locuzione nella quale quell’avverbio vien trasformato in sostantivo. Scartate le motivazioni formali (assimilazione alla preposizione articolata in prima posizione) che avrebbero potuto valere anche per il proverbio, si tratta di qualcosa di più sottile e profondo. Obliterando la seconda parte del proverbio con il suo riferimento alla morte e al giudizio che attende i credenti, era necessario consolidare il modo di dire in una più chiara espressione nominale, nella quale il poi sostantivo indicasse, se non l’aldilà, almeno un qualche tempo venturo; mentre l’avverbio, in mancanza di un verbo, rendeva l’espressione fraseologica generica e monca.
Insomma, sostantivando l’avverbio in certo modo s’inglobava nella locuzione ciò cui alludeva la seconda parte del proverbio: “il tempo del poi” – fosse quello della vita dopo la morte o di un’epoca storica successiva – che consente quel giudizio più veritiero e schietto di quando si accetta la prospettiva e l’etica propria della religione; invece “il senno di poi” non è altro che quell’usuale senno a posteriori che avevano gli antichi e che si ha sempre ogni volta che ci si volga indietro a cose fatte: un giudizio “a scoppio ritardato” che non va al di là dei nostri limiti umani.
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