Translating Myself and Others, rifugiarsi nella lingua italiana

Non sono molti gli scrittori che nel corso della loro vita rifanno radicalmente il loro stile. Ancora più rari sono quelli che cambiano la lingua in cui scrivono, ma a nomi come Beckett e Nabokov possiamo aggiungere Jhumpa Lahiri, nata a Londra da genitori indiani e ora stabilitasi negli Stati Uniti. 

All’inizio del millennio, Lahiri era una giovane star della letteratura americana, vincendo un premio Pulitzer per il suo debutto, Interpreter of Maladies. 

Avrebbe potuto continuare così, ma poco più di un decennio dopo, dopo la pubblicazione del suo romanzo The Lowland nel 2013, ha smesso di scrivere in inglese e ha iniziato a scrivere in italiano.

Jhumpa Lahiri ha da poco lanciato ‘Translating Myself and Others’, una raccolta di saggi sulla traduzione. Come ha ricordato Lahiri, “ero una traduttrice prima di essere una scrittrice”: la sua lingua madre è il bengalese, e in In Other Words scrive del “continuo senso di estraneità” che questo le dava in America. Il suo trasferimento in italiano è stato forse una forma per prendere il controllo, per scegliere il proprio allontanamento.

Scrive dell’appello e delle sfide della scrittura in italiano. Si sente un’impostrice, una sensazione che non viene alleviata quando gli italiani le chiedono perché scrive “nella nostra lingua”, o quando un giornale definisce il suo lavoro “le mie ‘poesie italiane’”. (“Perché ‘italiano’ tra virgolette spaventose? È perché scrivo in un italiano che è falso, spurio, obliquo, inesistente?”) Sfoga la propria frustrazione sul fatto che la traduzione venga vista come “imitativa anziché immaginativa”, ed è persuasiva sul difficoltà a tradurre il proprio lavoro: “Non ci sono regole a cui obbedire quando l’unica autorità è se stessi”. 

Lahiri scrive in italiano per “sentirsi libera” ma apprezza anche il modo in cui la lingua la fa ‘rallentare’ – “Ho bussato a questa porta abbastanza tardi e scricchiola un po’” – e la pensa diversamente, come una pittrice modernista che si limita a due colori. Una nuova lingua, scrive, è una forma di cecità, ma “Credo di essere cieca anche in inglese, solo al contrario. La familiarità, la destrezza e la facilità con una lingua possono conferire un’altra forma di cecità”.

Con l’italiano, afferma la scrittrice, “la mia anima si muove a parlare di forme trasformate in nuovi corpi.” All’improvviso, quando è quasi troppo tardi, questo libro fresco e distaccato trabocca di vita e amore.

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