Con il classismo culinario non si va da nessuna parte

Ci siamo abituati agli eventi in remoto. Ore e ore passate davanti al computer e connessioni Zoom interminabili caratterizzano il nuovo modo di vivere, relazionarsi e fare imprenditoria.

Fortunati però i pochi esclusivisti della ‘high class’ che recentemente si sono incontrati in persona per un ‘vizio’ culinario nella CBD in occasione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo. Una volta, quando i dirigenti della maggiore organizzazione imprenditoriale italiana locale comprendevano che Sydney non finisce a Pyrmont, gli eventi erano molteplici, ben pubblicizzati e aperti ad un numero maggiore di partecipanti, con un occhio sempre rivolto al grandissimo potenziale economico degli italiani all’estero.

Così che da qualche anno a questa parte, gli eventi esclusivi “per soli membri” sono l’unica opportunità per isolarsi dal resto del mondo e portare avanti una superficiale promozione del Made in Italy, fatta di qualche discorsetto, uno scatto o due e tanta puzza sotto il naso di chi “se la canta e se la suona”. Al consumatore che ammira le foto “fotoscioppate” non rimangono che alcuni soggetti ben retribuiti immortalati tra di loro e i “mi piace” degli stessi addetti ai lavori.

A Roma, le Camere di Commercio Italiane all’Estero continuano a chiedere maggiori fondi per promuovere i prodotti italiani. Soldi a palate anche per sovvenzionare la “lotta all’italian sounding,” visto che secondo le stime di Coldiretti “più due prodotti agroalimentari tricolori su tre sono falsi.” Ma se da domani gli italici e gli italofili nel mondo dovessero smettere di comprare prodotti Made in Italy, i dati export sarebbero ben diversi.

I grandi pensatori delle strategie commerciali si sono dimenticati come per decenni, le aziende italiane hanno esportato prodotti di terza scelta, difettosi e a breve scadenza, convinti che l’estero fosse la pattumiera del materiale invenduto o invendibile in Italia. Ricordiamo in tanti le mozzarelle acide e panettoni con la muffa, tanto che al fine di difendere il “mangiare italiano” sono sorte piccole e importanti realtà che producono localmente, abbattono i costi e preservano la qualità.

Gli scomodi sono quindi le aziende degli italiani all’estero, che dopo aver dovuto lasciare l’Italia a causa di uno stato assente e oppressivo, o per via dei clienti che pagavano con assegni post-datati ad un anno, si vedono oggi accusati di non avere più “alcun legame produttivo ed occupazionale” con il Belpaese. E grazie al C@#%!

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