100 anni fa nasceva Leo Buscaglia: Nei suoi 11 milioni di copie dei suoi libri insegnò a esprimere le emozioni positive
di Generoso D’Agnese
Se ne andò l’11 giugno del 1998, con il garbo che tutti gli riconoscevano, senza suscitare clamore e con la riservatezza di un vero “piemontese”. E dopo poche settimane, anche l’Italia si dimenticò di questo suo straordinario figlio, che conquistò le cronache con la sua teoria tutta affetto e amore. Leonardo Buscaglia, nel giro di poco tempo è diventato un altro dei tanti oggetti smarriti della memoria italiana nel Mondo, quella memoria che troppe volte è stata smarrita lungo il percorso storia, ma non è stato dimenticato dalla terra nella quale i suoi genitori scelsero di costruire, agli inizi del XX Secolo, il loro futuro, e quello dei figli italoamericani. Nato a Los Angeles il 31 marzo 1924, Leonardo Felice Buscaglia, non dimenticò in effetti mai le sue origini italiane, piantate nel piccolo centro di Caluso, tra le colline del Piemonte, e diede al suo secondo nome una vera e propria valenza pedagogica, scegliendo per se stesso la vocazione di insegnante. E tornò spesso nella terra dei suoi avi per fare visita ai parenti e per testimoniare in prima persona la sua grande voglia di “donare amore”.
“I miei genitori – amava ripetere – partirono a causa della povertà. Mia madre lavorava come domestica, mio padre lavorava in fabbrica, ma il salario era molto basso, e come molte altre persone si illudessero che in America le strade fossero lastricate d’oro. Negli Stati Uniti videro l’opportunità di crescere i loro figli in una terra migliore ed emigrarono. Prima partì mio padre e, dopo che ebbe trovato un lavoro e si fu sistemato, mia madre lo seguì con il suo primo figlio, mio fratello più vecchio. Ma capirono presto che erano molte le persone che stavano cercando la propria fortuna e loro erano solo due fra i tanti. Mio padre si trasformò in cameriere per poi diventare con gli anni proprietario di una sua attività, mia madre faceva il bucato per gli altri. Fu proprio il duro lavoro quotidiano a cementare tutta la loro vita affettiva.”
Cresciuto in una famiglia dal calore tipicamente italiano, il futuro professore e autore di apprezzati libri utilizzò questa lezione personale per riproporre agli studenti la forza dirompente di un nucleo latino basato sul focolare, ponendolo in antitesi al modello americano di famiglia “aperta”. E imparò il tutto nelle mille battaglie quotidiane sulle strade americane. Nella sua infanzia le parole che avrebbe sentito di più sarebbero state «wops» (senza documenti), «dagoes» e mafia, e sulla propria pelle respirò la facile generalizzazione da parte degli americani doc. Leo Buscaglia avrebbe sempre ricordato il suo apprendistato adolescenziale.
“Alcune persone a scuola mi chiamavano «wop» – avrebbe ricordato in più di un’intervista – oppure «dagoe», che erano termini molto offensivi; mio padre mi spiegò che le persone che avevano dei pregiudizi chiamavano gli altri con nomi offensivi a causa della loro ignoranza, e se ci avessero conosciuti ci avrebbero voluto bene. Così mi chiese di essere comprensivo e tollerante; mi invitò a non rispondere con altri pregiudizi nei loro confronti, ma di replicare alla loro rabbia e ai loro pregiudizi con l’accettazione e la comprensione. Era molto difficile per un giovane, ma non era impossibile, e io imparai a gestire la situazione.”
Negli anni Cinquanta Leo Buscaglia, completati con grande successo tutti gli studi universitari, fece il suo ingresso nel mondo accademico, conquistando la cattedra di pedagogia per la Southern California University di Los Angeles. Ma nonostante il lavoro lo bloccasse spesso nella città del cinema, l’italoamericano trovava l’occasione per proseguire una tradizione tutta familiare, quella di andare a North Beach, a San Francisco. Nella zona italiana a quei tempi, si potevano trovare giornali italiani, un cinema italiano, una chiesa dove si celebravano tutte le messe in italiano. E tutti parlavano italiano ed era come essere in una cittadina italiana nel cuore della California. Sensazioni che lo scrittore non avrebbe mai cancellato, anzi.
“I miei genitori amavano quella sensazione. Ci portavano là e noi mangiavamo, incontravamo della gente, facevamo visita agli amici. Era come una piccola fetta d’Italia. Quei momenti li ricordo in modo molto limpido. E ogni volta che vado là vedo che sta cambiando. Gli italiani si sono spostati fuori dalla comunità lasciandola ai cinesi, ma c’è ancora il sentimento, hanno ancora le messe in italiano e vengono ancora pubblicati giornali italiani, ci sono molti ristoranti italiani. Ogni volta che ci vado mi sento come se fossi di nuovo lì con i miei genitori ed è molto malinconico per me.”
In ambito professionale Buscaglia si distinse subito per il suo modo di porre il sapere verso gli studenti: scelse infatti di essere un “educatore” piuttosto che un professore e in realtà interpretò nel modo più appropriato gli insegnamenti ricevuti dal padre.
“Raramente vado a letto la sera senza chiedermi che cosa ho imparato di nuovo quel giorno – amava ancora ricordare l’insegnante -. Mio padre diceva che il più grande peccato del mondo era quello di andare a letto, la sera, «ignoranti» come quando ci si era svegliati al mattino. Quindi si rassicurava che tutti i suoi bambini imparassero qualcosa di nuovo ogni giorno, e anche se eravamo bambini ci piaceva farlo. Ora che sono adulto capisco quanto sia importante continuare a crescere.”
Di pari passo, spinto dal suo genuino slancio verso gli argomenti dell’Amore, Buscaglia iniziò a condurre una sua trasmissione sulle onde radio di una stazione locale, guadagnandosi subito un successo di pubblico. Gli anni tra il Settanta e l’Ottanta rappresentarono la vera svolta nella vita professionale e umana dell’educatore della California del Sud. La sua straordinaria capacità di trasmettere “emozioni positive” si materializzò anche sugli schermi delle televisioni, presentando a un’America ancora troppo ingabbiata dall’educazione anglosassone il calore tipicamente italiano di un uomo dotato di grande spessore pedagogico.
Dotato di grande umiltà, l’insegnante di origine italiana fece della sua felicità il vero fulcro di tutta la vita professionale e negli anni trasformò l’amore nel centro della sua vita, pur non disconoscendo l’esistenza dell’ingiustizia, della violenza, dell’ignoranza e della disperazione. Negli anni che visse fece davvero tutto il possibile per migliorare ogni situazione negativa esistente (attraverso i libri, l’insegnamento, le conferenze, le apparizioni televisive, lo stile di vita), risolutamente determinato ad amare, malgrado tutto.
“Rispondere agli altri con la stessa collera e ostilità che ci possono mostrare – affermò riassumendo la sua filosofia – significa rinforzare i loro comportamenti distruttivi. Invece, ricambiare la loro ostilità con l’amore significa rompere un circolo vizioso.”
Il suo inno all’Amore, inteso come chiave di volta per scardinare il cuore di ogni persona e idealizzato nel volume “Living, Loving and Learning and Born for Love”, divenne così un tutt’uno con le sue lezioni e la sua fama attraversò le frontiere a stelle e strisce per trovare nuova linfa in Europa e in altri paesi del continente americano. Il suo modo di intendere la vita, Buscaglia la depose anche su carta, dando alla stampa decine di libri, venduti in undici milioni di copie e tradotti in venti lingue. Conscio della forza dirompente delle sue parole e dei suoi gesti così lontani dall’introversione americana, il professore di origine torinese, decise di convogliare le energie in una vera e propria fondazione, la “Felice Foundation”, dandole lo scopo di incoraggiare e insegnare lo spirito del “dare”, e divenendo involontariamente il vero rappresentante dei “figli dei fiori”.
Carico di onori e appagato nella sua continua ricerca di emozioni, Leo Felice Buscaglia, passò gli ultimi anni della sua vita ritirandosi tra le montagne del Nevada, in una sorte di cammino a ritroso verso gli ambienti alpini impressi nel suo DNA. Ritiratosi a Zephyr Cove, vicino al Lago Tahoe, ridusse la sua attività editoriale.
“Quella dello scrittore – disse – è una professione molto solitaria. Hai solo te stesso e nessun altro può farlo per te. Quindi, in un certo senso, significa che ci stiamo allontanando dalla vita per andare in un’altra dimensione”.
E sulla morte diede i suoi ultimi grandi consigli.
“Credo fermamente che questa sia l’esperienza più democratica della vita umana. Tutti muoiono: il povero, il felice, l’infelice, la persona famosa, quella non conosciuta. Tutti sanno che la fine sarà la morte, e questo dovrebbe rappresentare una sfida, perché sapere di non essere immortale significa dover vivere ogni momento della vita e celebrare ogni momento della mia vita, perché la morte arriva inaspettata. Se si vive pienamente la vita, non si ha paura della morte. Le persone che si lamentano di più della morte sono quelle che non hanno mai vissuto la propria vita.”
Il 12 giugno del 1998 l’appuntamento fatidico arrivò anche per lui, spegnendo per sempre una delle voci più “limpide” dell’insegnamento, un Gandhi contemporaneo dal grande cuore italiano.
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