È insolito il fatto che la Corte Suprema abbia ribaltato la famosa sentenza Wade v Roe. Il principio sancito dai giudici nei giorni scorsi con il caso Dobbs v Jackson Women’s Health rimanda ai singoli stati americani l’applicazione di una legislazione sull’aborto, visto che, secondo la corte, Roe fu una decisione adottata “senza alcun fondamento nel testo costituzionale, nella storia o nei precedenti giuridici” degli Stati Uniti.
Frutto della sua stessa epoca, nel 1973 le condizioni politiche, sociali ed economiche furono ottimali per una decisione che affermava come la costituzione americana contenesse implicitamente un diritto all’interruzione di gravidanza. La sentenza fu la massima espressione di un contesto che vide la vittoria della rivoluzione sessuale, l’ascesa dei movimenti studenteschi contro i valori tradizionali della società, la fine degli accordi di Bretton Woods e la crisi petrolifera.
Roe fu un caso alquanto singolare. La donna, il cui vero nome era Norma McCorvey, alla fine partorì comunque la bambina e la diede in adozione. Anni più tardi affermerà di avere accettato di portare il caso in tribunale al fine di guadagnarsi l’attenzione mediatica e di mentito alla Corte Suprema, quando nel 1973 dichiarò di essere stata vittima di una violenza sessuale di gruppo. Morta all’inizio del 2018, Norma McCorvey rimase un elemento controverso nel dibattito sull’aborto e non incontrò mai la figlia Shelley.
Da un punto di vista giuridico, l’interventismo dei giudici della Corte Suprema nel caso Roe non si limitò ad un giudizio sui fatti del caso specifico, ma generò uno “schema con le sembianze di una legislazione” con “il tipo di spiegazione che ci si potrebbe aspettare da un organo legislativo.”
Ora la questione torna agli stati, al parlamento federale, ai cittadini. Dopo mezzo secolo, l’autorità di decidere sull’aborto, usurpata dalla Corte Suprema, torna quindi al popolo e ai suoi rappresentanti eletti, come è giusto che sia.
Be the first to comment