Per la prima volta dal 1970, il Partito Laburista australiano ha una maggioranza caucus schierata a sinistra. È un cambiamento storico, ma anche un segnale inequivocabile: il Labor non teme più di esporsi e ha deciso di abbracciare, senza più ambiguità, un’agenda progressista più audace.
A contare oggi non è solo la forza numerica – 62 membri su 123 –, ma il tipo di profilo che emerge tra i nuovi parlamentari: donne, sindacalisti, difensori del welfare, attivisti per la salute pubblica e l’equità sociale. Molti hanno lavorato nel settore non-profit, nell’istruzione o nella sanità, e pochi – pochissimi – vantano carriere da banchieri, dirigenti o imprenditori privati.
La nuova generazione laburista si dichiara pronta a “cambiare lo status quo”. Ma cosa significa, concretamente?
Un ritorno alla centralità dello Stato in economia? Una riforma fiscale più equa? O, come molti temono, un’escalation di spesa pubblica senza una visione pragmatica, solida e sostenibile nel tempo?
È innegabile che l’Albanese 2.0 voglia capitalizzare il consenso ottenuto a maggio per imprimere una svolta più ideologica. Tuttavia, la sinistra – anche quella di governo – ha un nemico insidioso: l’autocompiacimento. Avere la maggioranza non basta se non si sa governare la complessità e tenere unito un fronte ampio e talvolta dissonante.
La vera sfida ora non è vincere nuove battaglie simboliche, ma tradurre i principi progressisti in risultati tangibili: case accessibili, sanità rafforzata, scuola pubblica di qualità, lavoro dignitoso per tutti.
Se i laburisti sapranno fare questo senza scivolare nella frammentazione, allora sì, potrà dire di aver riscritto le regole. Altrimenti, come già successo altrove, il ritorno al centro sarà brutale e inevitabile.
