La pazza irlandese che sparò a Mussolini e lo mancò per pochi millimetri

di Angelo Paratico

Quasi cent’anni fa, mercoledì 7 aprile 1926. Alle 8 in punto, Quinto Navarra entrava nell’appartamento di Palazzo Tittoni, in via Rasella, dove alloggiava Benito Mussolini. Una Lancia nera li attendeva in strada. Mussolini si sistemò dietro e si diressero verso Palazzo Chigi, sapeva che quello sarebbe stata una lunga e faticosa giornata. 

Giunto nel proprio ufficio, il Primo Ministro sedette alla sua scrivania e sbrigò le questioni più urgenti, ricevendo dei funzionari e firmando delle carte. Alle 9 e 30 incontrò il Duca D’Aosta, cugino del Re e poi corse verso il Campidoglio. Salì di corsa la scalinata e una volta entrato nella Sala degli Orazi e dei Curiazi, salì sulla predella e inaugurò il Settimo Congresso Internazionale di Chirurgia.  Parlò a braccio, ringraziando quei luminari per il continuo progresso di dell’arte medica che lo aveva rimesso insieme, dopo che le sue ossa e i suoi muscoli erano stati lacerati da una esplosione durante la Prima guerra mondiale. Alle 10 e 58 minuti uscì dall’edificio, camminando speditamente sotto a un bel sole primaverile, dirigendosi verso la statua equestre di Marco Aurelio. 

La piazza era gremita di suoi rumorosi ammiratori, che lo salutarono e da uomini del servizio di sicurezza. Davanti a lui camminava il governatore di Roma e di fianco due medici e dietro il fido Quinto Navarra, con altre persone, fra le quali Dino Grandi. In quel momento un coro di giovani, senza preavviso, intonò a piena voce Giovinezza. Mussolini, un po’ sorpreso, alzò la testa, voltandola leggermente per fare un cenno di saluto e torse la spalla per alzare il braccio destro e stenderlo. Proprio in quell’attimo s’udì un colpo secco e il suo viso si coprì di sangue. La sua mano destra, dal saluto romano appena accennato venne portata al volto. Mussolini si fermò, arretrando d’un passo. 

Poi si volse da dove era partito il colpo e vide una donnetta grigia di capelli, con un vestitino nero e una grossa pistola in mano: era una pistola francese a tamburo, modello Lebel 1892. Per un attimo, che parve lungo secoli, tutti restarono pietrificati: anche l’attentatrice che, vedendolo ancora in piedi, pur avendo fatto fuoco da un paio di metri di distanza, alzò nuovamente l’arma. La puntò di nuovo verso il suo viso, tirò il grilletto e si udì un click, e il colpo fece cilecca. La vecchia cartuccia tedesca che aveva utilizzato era difettosa.

Quella donna cinquantenne era una nobile anglo-irlandese, Violet Albina Gibson, figlia di Lord Ashbourne, ma invisa alla propria famiglia per essersi convertita al cattolicesimo. Una signora dietro di lei fu la prima a reagire: accortasi di quanto stava accadendo la colpì in testa con una borsetta e i poliziotti e la folla, usciti dallo shock iniziale, le si avventarono contro. Mussolini mantenne il suo sangue freddo e gridò che non era stato niente, nessuna paura. Infatti, la pallottola gli aveva solo spelato la radice del naso. Eppure, senza il suo provvidenziale saluto al coro, egli sarebbe certamente morto.

Un medico gli tampona la ferita con il fazzoletto e poi lo convince a rientrare: altri medici s’avventano su Mussolini, che poi fece con sua moglie Rachele una bella battuta: le disse che lì ebbe davvero paura per la propria incolumità, perché tutti quegli scienziati lo stavano soffocando.

La polizia riuscì a sottrarre Violet al linciaggio e ad arrestarla. Risulterà essere pazza: l’anno prima aveva tentato d’impiccarsi e specialmente durante il mese di aprile manifestava e manifesterà reazioni violente. 

Era già stata in varie cliniche psichiatriche, ma le indagini circa la complicità di altri congiurati non furono mai davvero portate avanti dalla polizia fascista, forse perché guardarono verso la Russia sovietica e non altrove. Si è supposto che la donna, allora cinquantenne, fosse mentalmente squilibrata all’epoca dei fatti e che potesse essere stata indotta a commettere il gesto da qualche istigatore sconosciuto. 

A tal fine il giovane funzionario di polizia Guido Leto fu inviato a Dublino per raccogliere informazioni. Nella capitale irlandese, Leto conobbe la governante della Gibson, la signorina Mc Grath, la quale rivelò come pure in passato la donna fosse stata soggetta a brusche crisi nervose e che qualche anno prima aveva improvvisamente aggredito un’amica con un temperino custodito nella borsetta. 

Furono inoltre sollevati pesanti sospetti all’indirizzo di Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, un ex ministro, esperto di ipnosi e massone, ma alla fine la Gibson fu processata e giudicata malata di mente e così, nel maggio del 1927, accompagnata da una sua sorella, le fu concesso di lasciare Roma in una carrozza di prima classe su di un treno diretto a Parigi. Da Parigi passarono la Manica e fu scortata a Northampton, dove fu messa in una clinica di lusso per malati di mente, nella quale resterà rinchiusa sino alla morte, avvenuta nel 1956.

Benito Mussolini, nonostante la ferita e la vistosa benda che gli misero sul naso, continuò con il suo programma. Nel pomeriggio era al Palazzo del Littorio per incontrare i segretari provinciali e il nuovo direttorio del Partito Fascista. Poi fece ritorno a Palazzo Chigi e di sera fu costretto ad apparire al balcone per salutare la folla che vi si era radunata, lo volevano vedere per essere sicuri che stesse bene e che non fosse morto, dato che non si fidavano della propaganda. 

Fu in quella occasione che coniò il motto che fu poi spesso citato, scritto sui muri e ripetuto: “Se avanzo, seguitemi. Se indietreggio, uccidetemi. Se muoio, vendicatemi!”. La folla rispose con il grido di: “Alla forca, alla forca!”. Chiaramente, alludevano all’irlandese. Due giorni dopo, la quattordicenne Clara Petacci gli scrisse la sua prima letterina, congratulandosi per lo scampato pericolo ma Mussolini la incontrerà solo sei anni dopo. 

Tutti i capi di stato del mondo inviarono dei telegrammi di congratulazioni, anche Re Giorgio di Gran Bretagna, che trent’anni prima era stato fotografato a fianco di Violet Gibson. Il giorno dopo l’attentato, rifiutando di stare a riposo, come gli chiedevano i medici, Mussolini andò all’aeroporto di Ciampino a salutare il colonnello Nobile che partiva con il dirigibile Norge verso il Polo Nord. Poi scese verso il mare, dove lo attendeva la