Chissà perché ci sono notizie importanti che quasi non vengono riprese dai media. Per esempio, per una volta, tutta l’Italia – opposizione compresa – dovrebbe apprezzare la dura posizione del governo Meloni che, per bocca del ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, ha annunciato di porre il veto in sede Ecofin ad una nuova tassazione “europea” sul gas che avrebbe danneggiato in modo gravissimo non solo le imprese italiane, ma anche tutti i singoli cittadini, di fatto – almeno per ora – facendola accantonare. Una volta di più emergono però aspetti strategici di politica energetica che andrebbero ben più approfonditi.
Il primo è geopolitico, ovvero ricordare cosa abbia comportato la decisione di sospendere le forniture dalla Russia (che nel 2021 rappresentava il principale fornitore europeo e particolarmente per l’ Italia) e che ci vendeva gas a prezzi contenuti.
La settimana scorsa, commentando l’impennata dei prezzi degli alimentari che in un quadriennio sono aumentati di circa il 25%, si sottolineava proprio che la principale responsabile degli aumenti era proprio la “componente energia”. La decisione di chiudere a Mosca (soprattutto dopo che la “manina” presumibilmente ucraina ha distrutto i gasdotti del Mar Baltico facendo diventare problematiche le importazioni del gas russo anche se un domani si giungesse finalmente a sospendere il conflitto) ha avuto infatti conseguenze molto diverse per i singoli paesi UE.
Alcuni ne hanno risentito poco, per altri – come l’Italia – le conseguenze sono state gravissime con impennate dei prezzi energetici che Bruxelles non riesce a controllare (e tantomeno a calmierare, ammesso lo volesse) con splenditi risultati per la speculazione che ci sta dietro.
Secondo elemento è il perché si dovesse ricorrere a una nuova tassa sul gas e qui rispunta questo pallino della Commissione europea che vede nel “green” il suo massimo obiettivo strategico. Nell’ottica del pacchetto legislativo “Fit for 2055” (ovvero emissioni zero per il 2055) eliminare il consumo di gas sarebbe infatti una pietra fondamentale e un “deal” fisso per gli ecologisti della Commissione. Che il “green” europeo non conti concretamente nulla nel mondo se gli stessi criteri non vengono applicati da chi inquina infinitamente di più (Cina, India, USA) resta un dettaglio, eppure imperversa questa nostra volontà di autoflagellazione e suicidio industriale (vedi Taranto). Il problema vero è poi che il costo dell’energia è molto diverso nei singoli paesi europei. Il prezzo finale nasce da un dedalo di sommatorie spesso incomprensibili che partono dai prezzi delle materie prime, imposte, sovraimposte, oneri aggiuntivi salvo poi abbuoni sociali e detrazioni, IVA diversificata ecc.
Pensate che in alcune zone della Norvegia l’energia costa un decimo dell’Italia e i prezzi sono molto più bassi in Ungheria, Francia, Spagna e tutto l’est europeo. E qui sta appunto l’aspetto centrale cui si oppone l’Italia: non ha senso mettere una nuova imposta per ridurre i consumi se a monte non c’è una volontà di uniformare i prezzi di gas e di energia elettrica all’interno della UE o si moltiplicherebbero le disuguaglianze economiche.
Una questione fondamentale, ma che ha visioni profondamente diverse soprattutto perché alcuni paesi vendono energia ai vicini (sovente ad un prezzo molto superiore a quello interno, vedi la Francia nei confronti dell’Italia) e non hanno interesse a fare sconti, mentre chi deve importare si trova in difficoltà.
Noi poi ci abbiamo messo del nostro: l’aver deciso di chiudere al nucleare quarant’anni fa ci vede ora molto in ritardo in questo settore e anche eolico e solare soffrono di tempi burocratici spesso infiniti per poter far funzionare nuovi impianti. Per un paese che ha già sfruttato al massimo le risorse idroelettriche, importa petrolio e gas, non ha nucleare e sta in piedi con la industrie di trasformazione la trappola energetica è un rischio costante.
