Modesto Varischetti nacque il 24 ottobre 1874. Dopo la morte della moglie avvenuta durante la nascita del quinto figlio, Modesto decise di lasciare l’Italia alla volta della lontana Australia in cerca di fortuna, nella speranza che l’oro australiano potesse sfamare l’intera famiglia a cui aveva lasciato i figlioletti in affidamento. Varischetti trovò facilmente lavoro per la “Westralia & East Extension”, una miniera d’oro del Western Australia, a Bonnievale, piccolo insediamento a 11 chilometri a nord di Coolgardie.
Il 19 marzo del 1907, Bonnievale fu travolto da un nubifragio violentissimo. C’era chi cercava di raggiungere le stanze cigolanti degli unici due hotel, chi trovava riparo nei pressi della scuola o dell’ufficio postale, chi correva ancora verso il municipio, in attesa di raggiungere al sicuro le baracche di legno e lamiera messe in piedi nella desolazione dell’outback. Mai vista una furia simile dai 250 abitanti del posto.
Persino i dirigenti della “Westralia & East Extension”, la miniera centrale dell’insediamento, si erano affrettati a far evacuare le squadre in servizio quel giorno. L’acqua scorreva ovunque, allagando ogni pozzo e ogni apertura, col rischio di far crollare, da un momento all’altro, anche le impalcature montate nelle viscere della terra. Dal tunnel 22, profondo 412 metri circa, si misero in salvo tutti gli operai, inclusi quelli appena entrati per il secondo turno dalle ore 16 alle 24. Tutti, tranne uno. “Charlie”. Il perforatore del 10° livello, stretto in un passaggio di un centinaio di metri di lunghezza e poco più di 7 d’altezza. Il lavoro in isolamento, o forse gli assordanti colpi del suo martello pneumatico lo avevo confinato in un vicolo cieco. “Bloody hell!”.
L’acqua arrivava velocemente nel corridoio, a quasi 200 metri di profondità. Impossibile tornare verso il tunnel principale. In lontananza solo un gorgoglio inquietante. “Sono finito”, confessò a se stesso. “Sì, l’è propri finida”, ripeté a voce alta, nel suo dialetto, come non gli capitava più da tempo.
Quasi l’ascolto della lingua dei padri potesse lenire lo sgomento dell’abbandono sotto terra. Per un attimo gli balenarono le immagini della partenza da Gorno, il suo piccolo villaggio timidamente aggrappato alle pareti della Val del Riso. Riconobbe anche il volto di Anna, l’amata moglie sottratta alla vita troppo presto, si reggeva a fatica nella fanghiglia che gli inzuppava i piedi. Cominciò a mancargli il respiro.
Sentiva scendere lacrime salate verso gli spessi baffi e in un impeto d’ira maledisse quella vita fatta solo di stenti, di delusioni e di gioie amare. Le candele si struggevano silenziose, inesorabilmente, quando all’improvviso… udì un suono cristallino tendersi da una delle condutture dell’aria. Attese qualche secondo. Di nuovo la stessa vibrazione. Il cuore prese a battergli più forte di una campana. Lassù era rimasto qualcuno. Lo stavano cercando. Brandì un martello con cui rispose. Due colpi. Spazio. Tre colpi ravvicinati. Sì, era il codice d’emergenza. Avevano stabilito di nuovo un contatto. Varischetti piegò le labbra in una smorfia di gioia.
I compagni non lo avrebbero abbandonato, benché capire in che punto della miniera si trovasse non fosse affatto semplice. Rubinschaum, il direttore generale della compagnia, concordò col collega responsabile dei tunnel, Mr Beard, di chiamare subito Josiah Crabb ma mentre l’ispettore accorreva da Coolgardie, il livello dell’acqua continuava a salire, al punto da superare di venti metri il corridoio 10.
Le stime degli ingegneri parlarono, successivamente, di 54 milioni di litri d’acqua riversatisi nella miniera. L’unico modo per liberare Varischetti consisteva nell’uso di pompe e decompressori, ma anche con i migliori modelli in dotazione sarebbe occorso troppo tempo. Probabilmente, il minatore italiano aveva già i minuti contati. Alla fine l’ispettore suggerì che l’unico modo per tenere in vita Varischetti era quello d‘inviare sommozzatori sul fondo, affidando loro cibo e luce da portare al decimo livello.
Venne spedito immediatamente un dispaccio a Perth, nell’ufficio del Ministro delle Miniere e la risposta giunse altrettanto celere. “Non badate a spese!”. In gioco era anche l’immagine di uno dei bacini economici più importanti di tutto il Commonwealth britannico. La notizia si rincorreva da un capo all’altro del Western Australia.
Fu uno scolaro di Perth, infatti, a lanciare l’idea di utilizzare serbatoi per supportare le operazioni di salvataggio. All’appello d’aiuto risposero due palombari professionisti, Frank Hughes e Joseph Fox, già in forza nella squadra di lavoro attiva presso il Golden Mile, l’inesauribile deposito aurifero che dal 1893 stava facendo la fortuna di Kalgoorlie e Boulder. In meno di otto ore, il treno con a bordo 122 metri di tubi per pompe, equipaggiamenti di emergenza e sommozzatori di supporto a una squadra di dodici professionisti, corse come l’inferno, riuscendo a coprire seicento chilometri in 13 ore e 10 minuti.
Un record assoluto sino all’introduzione del diesel, avvenuta solo mezzo secolo più tardi. Il 22 marzo, alle 4 del mattino, tutto era pronto per tentare l’impossibile. Hughes e Fox riuscirono a calarsi sino al livello 9, arrivando ad appena 20 metri dal punto in cui Varischetti era sepolto. Il tempo stringeva e subito fu scartata l’idea di scavare un varco. Fox sarebbe rimasto al piano superiore, srotolando la corda con cui il compagno avrebbe tentato di recuperare il minatore italiano, benché dovesse nuotare per il corridoio 10 in totale assenza di luce.
Ogni movimento poteva rivelarsi fatale. Il legno delle travi era ormai talmente zuppo da disfarsi al primo urto. L’australiano non mancava però di sangue freddo e, liberato faticosamente l’ingresso al corridoio, strattonò la corda per richiamare Fox. Non altrettanto agile fu il collega, feritosi subito ad una gamba nell’operazione. Nuovo stop. Fox fu riportato in superficie e dovette abbandonare il salvataggio. Toccò a Thomas Hearn prendere il suo posto, ma i due sub in servizio non riuscirono a capirsi e furono costretti a riemergere. Hughes non volle demordere e si immerse nuovamente, arrivando ad assicurare la fune all’ingresso del corridoio 10.
Fu necessario ancora uno stop e qualche ora per riprendersi. Nonostante altri palombari volessero dare il cambio, fu deciso che l’operazione sarebbe andata avanti solo con Hughes, la cui esperienza non aveva eguali. Tre ore dopo l’australiano era di nuovo in acqua e, con uno sforzo al limite del possibile, infine riuscì a raggiungere le mani di Varischetti: “I feel you! I feel you, mate!!”.
Per qualche secondo i due tennero le dita strette; dall’acqua emerse poi una sacca con una torcia elettrica, quindi un contenitore stagno con cibo fresco e altro materiale ancora per curarsi. Il giorno successivo Hughes e Hearne raggiunsero di nuovo Varischetti e continuarono a prestargli assistenza, in attesa che il livello dell’acqua iniziasse a calare sotto l’azione ininterrotta delle pompe. Al nono giorno dal nubifragio e al terzo tentativo della mattinata, Hughes tornò ancora una volta al livello 10, rinunciando però all’attrezzatura subacquea. “Riportiamolo a casa!”, urlò verso l’apertura della miniera. Lassù, solo respiri tesi. Entrò nel corridoio, ora illuminato da quasi 60 candele. Un passo avanti. Una mano protesa.
Finalmente penetrava nella sacca-rifugio di Varischetti. L’italiano era allo strenuo delle forze, prossimo al delirio e con l’ossigeno al limite. Riuscì ad abbozzare un ghigno alla torcia che lo accecava. Solo il diavolo, ormai, poteva essere giunto a prenderlo. Impossibile per lui fare uso delle braccia. Dovette essere trascinato a spalla per tutta la risalita, finché qualcuno poté disegnare sul calendario un cerchio rosso intorno al 28 marzo.
Alle sei di sera, Varischetti respirava di nuovo l’aria del deserto sotto lo sguardo incredulo del dottor Robert Mitchell. “Ce la fa – confermò ai dirigenti della miniera – L’italiano non molla”. Un urlo di gioia esplose fra la folla accalcata all’ingresso della miniera. Volarono cappelli e bottiglie di birra, braccia muscolose si strinsero le une con le altre. I nomi di “Charlie” e Frank Hughes arrivarono persino alle orecchie curiose dei canguri rossi. Cercando di sottrarsi al ricovero ospedaliero, Varischetti biascicò di voler lavorare appena in forze, così da poter spedire altri risparmi a Gorno.
La comunità italiana si affrettò invece a coniare una medaglia d’oro per onorare l’eroico palombaro, proprio come fece il governatore del Western Australia con la prestigiosa Albert Medal, accompagnata da un certificato di merito. A sua volta, Vittorio Emanuele III, re d’Italia, decorò il Ministro delle Miniere. Tricolori e bandiere con la Croce del Sud coloravano ogni angolo d’Australia.
A memoria di Modesto Varischetti, in occasione degli 80 anni dall’incidente di Bonnievade, il presidente dell’Eastern Goldfield Historical Society, Scott Wilson, ha piantato una lapide speciale in granito a riconoscimento della tomba, sita nel cimitero di Coolgardie in modo che ogni visitatore possa fermarsi e meditare sulla vita esemplare di quest’umile immigrato diviso fra due mondi. (Alberto Caspani)
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