Aborigeni d’Australia: il potere della mente

Sono diventato cittadino Australiano il 28 di Maggio del 1998. Avendo di già la residenza permanente ottenuta per aver sposato una cittadina australiana, non sarebbe stato necessario ma la richiesi per evitare complicazioni di ordine amministrativo e burocratico in futuro. Un po’ per lo stesso motivo per cui mi sono vaccinato.

Quindi credo di essere nella situazione della maggior parte dei lettori di questa rivista. E immagino che con voi condivido emozioni, sentimenti e contraddizioni che derivano da questa doppia appartenenza. Devo ammettere che per motivi culturali e avendo subito episodi di discriminazione non gravissimi ma fastidiosi non sono mai riuscito ad identificarmi in questa realtà. Ma c’è un suo aspetto che invece mi rende particolarmente orgoglioso di essere australiano quello di condividere la nazionalità con i suoi abitanti originari cioè gli aborigeni.

Un insieme molto vasto di tribù della stessa etnia sparsi su tutto l’immenso territorio, con lingue, dialetti diversi e usanze adattate alle differenti caratteristiche territoriali e ambientali ma con la stessa cultura e spiritualità. Una civiltà “campione del mondo” sotto molti aspetti, a cominciare dall’anzianità.

Più le ricerche vanno avanti più la data di inizio viene retrocessa. Ormai siamo oltre 60.000 anni. 10 volte più antica della civiltà mesopotamica (Sumeri, Babilonesi, Assiri, ecc) da cui poi è derivata la nostra mediterranea. Ma l’aspetto più straordinario non è la sua vetustà ma il fatto che sia ancora presente e operativa nelle sue componenti tradizionali esattamente come 60.000 anni fa. Stessi riti, stesse leggi, stessa cosmologia, stessi tabù.

Campione del mondo nel rispetto della natura e minimo impatto ambientale. Mai costruito edifici stabili, mai arato un metro quadrato di terreno, mai allevato bestiame. Fino a 230 anni fa rimasti nell’età della pietra vivendo di caccia, pesca e raccolta di prodotti selvatici. Il numero ridotto e gli enormi spazi non sollecitavano alcun sfruttamento artificiale.

Non hanno mai sviluppato una scrittura vera e propria ma hanno una vastissima simbologia descrittiva intrinsecamente collegata all’enorme bagaglio sapienziale accumulato attraverso i secoli e tramandato meticolosamente per via orale in maniera rituale e iniziatica. Se proprio si vuole trovare una trasgressione all’equilibrio naturale la possiamo identificare nell’uso del fuoco nella gestione di alcune zone di pascolo o boschive per favorire la crescita e la cattura di alcune prede.

Ma lo “strumento” fondamentale usato dagli aborigeni per vivere felicemente in quello che è considerato il territorio più inospitale del mondo è stato un potentissimo computer completo di hardware e software. La testa come hardware e la Tjukurpa come software. Penso che tutti sappiamo che la mente umana è un potentissimo organo di conoscenza, elaborazione, comunicazione, analisi e decisionale.

Forse avrei dovuto usare il passato remoto e non il presente perché con l’evolversi e il “progredire” dell’umanità molte facoltà si sono ridotte quando non addirittura annullate. Gli aborigeni, confermando quanto pensava Socrate sul danno causato al cervello dall’invenzione della scrittura, avevano grandi capacità di orientamento, percezione, intuito e persino telepatia.

Ma le password con cui accedere alle informazioni furono due: la memoria e la Tjukurpa, cioè l’insieme di tutte le storie riguardanti il territorio, le leggi comunitarie e il sopranaturale. Secondo la loro cosmologia queste storie o sogni furono iniziate da esseri sovrumani i loro avi ancestrali che emergendo dal sottosuolo crearono il mondo e tutto ciò che è in esso percorrendo a piedi in tutte le direzioni l’intero continente materializzando le loro idee prima nelle parole e poi in canti descrittivi, vere e proprie istruzioni particolareggiate per orientarsi, conoscere fonti di cibo e di acqua a secondo della stagione delimitare confini tra le diverse tribù.

Queste istruzioni cantate, il canto è un forte moltiplicatore della memoria, sono state tramandate da padre in figlio, da madre in figlia per 60.000 anni! Concluderei con con un paio di riflessioni. La prima riguardante la mirabile combinazione tra la poesia e l’efficienza pratica di questa filosofia che considera sacro tutto ciò che esiste minerali, vegetazione e animali tra cui l’uomo.

La seconda una meravigliosa testimonianza documentata in un libro da Vincenzo Papandrea di Adelaide che ha scritto la storia di suor Giovanna Sambusida missionaria Canossiana che mandata in missione in una zona remota delle Kimberley nell’Australia Occidentale per evangelizzare e portare Dio tra quella gente con sua enorme sorpresa scoprì che Dio era lì. Grazie per l’attenzione e alla prossima.

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