5 Stelle, finale di partita del qualunquismo antipolitico

“Luigi ti risponde dopo tre squilli, Conte non ti richiama nemmeno”: così un deputato passato armi e bagagli al nuovo gruppo parlamentare guidato da Di Maio descriveva il peso del fattore umano nel successo indubitabile delle adesioni alla scissione del Movimento 5 Stelle. 

Ironia della sorte, quello che potrebbe sembrare un dettaglio umano secondario, perfino misero, rappresenta involontariamente la celebrazione del valore del professionismo politico, che è innanzitutto un mestiere fondato sulle capacità di relazione. Quel professionismo politico che Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio si erano illusi di potere sconfiggere con il loro movimento senza strutture, senza dirigenti, senza congressi. 

Quel professionismo al quale è arrivato per caso anche Giuseppe Conte, e si vede nell’affanno col quale gestisce la forza politica che guida, nonostante la prova dignitosa offerta a suo tempo dalla poltrona di palazzo Chigi nel non farsi travolgere del tutto dall’emergenza Covid, in Italia, e nel negoziato sugli strumenti finanziari con i partner europei. 

Sarebbe alquanto sterile, oggi, accodarsi alla folla dei profeti del giorno dopo, pronti a giurare di avere previsto tutto: il Movimento 5 Stelle ha portato in politica la sua versione qualunquista del populismo antipolitico, del quale è esistita la lettura “riformista” del picconatore costituzionale Matteo Renzi, quella tecnocratica dell’attuale capo del governo, quelle più schiettamente di destra di Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni.

Il Movimento ha attaccato, in qualche occasione, i dogmi ultraliberisti, come nelle timide aperture lavoriste del “decreto dignità” o nella lunga e a volte un po’ contraddittoria battaglia per il reddito di cittadinanza, un banale sussidio di disoccupazione alla tedesca. 

Ma soprattutto ha rappresentato la rottura con l’incanto truffaldino del bipolarismo all’italiana, nel quale si raccontano contrapposizioni feroci tra forze che trecento giorni all’anno si combattono prevalentemente a parole, ma in realtà competono e convivono pacificamente all’ombra dei palazzi del potere. 

Una dinamica che, dopo il crollo dei consensi ai 5 Stelle, si sta riproponendo con Fratelli d’Italia: opposizione non troppo radicale all’esecutivo Draghi, in piena luna di miele con qualche grande gruppo editoriale grazie alla nuova veste ultra-atlantista; la sua leader Giorgia Meloni è tornata oggi a essere descritta come avversaria irriducibile, e pericolo per la democrazia. 

Per un po’, questo gioco delle parti non ha funzionato molto bene grazie all’irruzione delle truppe confusionarie capitanate a seconda dei periodi storici da Beppe Grillo, Luigi Di Maio e ora Giuseppe Conte. 

Un merito storico che resta incancellabile, anche se non attenua la sensazione di fallimento complessivo dell’impresa politica.

Il presente però è un altro capitolo, tutto da scrivere. Resta da vedere quale sarà la strada che l’ex presidente del Consiglio imboccherà per restituire un profilo di identità politica e credibilità ai suoi. 

I più lucidi fra i parlamentari stellati di lungo corso allargano le braccia quando si chiede loro se rifarebbero la scelta di sostenere a pieno titolo Mario Draghi: “Che potevamo fare quando Beppe (Grillo, ndr) diceva ‘Draghi è grillino’? Lui ha sempre detto che noi eravamo una realtà transitoria e poi ci saremmo sciolti, forse è proprio quello che vuole…”.

Ancora una volta, Conte ha scelto il compromesso, rappresentato stavolta dall’aggiunta di qualche parola sul “necessario e ampio coinvolgimento delle Camere” in vista dei prossimi vertici internazionali sulla crisi ucraina, e non ha collocato il Movimento fuori dal perimetro della disciplina di maggioranza, come forse sperava il suo rivale per dare ancora più forza alla scissione. 

Ma è impensabile che nei mesi a venire Conte non cerchi ancora di distinguersi, se non di distaccarsi dalla maggioranza, visto che l’uscita di Di Maio cambia volto agli equilibri parlamentari e rende ancor più ancillare il ruolo dei 5 Stelle rispetto al Pd nel molto ipotetico “campo largo” immaginato da Enrico Letta. 

La legislatura, con l’uscita dai gruppi 5 Stelle di oltre sessanta “dimaiani”, si avvia quasi certamente a segnare un record mondiale nei “cambi di casacca”. Primato poco invidiabile, ma che sarebbe ingiusto liquidare solo come manifestazione estrema di trasformismo e di uso privato delle cariche pubbliche. 

La debolezza estrema dei partiti sul piano dell’identità politica e della coesione comunitaria è certamente uno degli elementi trainanti di questa continua agonia della democrazia parlamentare. Un’agonia che si rispecchia nell’altra faccia della medaglia, l’ostinazione con la quale il governo Draghi si è opposto in questi mesi alle richieste di confronto parlamentare e di rispetto del potere di indirizzo della sua maggioranza; atteggiamento che gli ha fruttato argomentate critiche di qualche autorevole costituzionalista.

Un’agonia che la scissione dei 5 Stelle al tempo stesso rappresenta plasticamente e aggrava ulteriormente.

di Paolo Barbieri (da Terzo Giornale)

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