Cambiare nome risolve tutto

Il Ministero degli Esteri si rinnova con una strategia rivoluzionaria: cancellare le direzioni che danno fastidio e rinominare le altre. Perché risolvere i problemi quando si può semplicemente cambiarne il nome?

È arrivata una tanto agognata riforma della Farnesina, e possiamo finalmente tirare un sospiro di sollievo. Dopo anni di complesse sfide geopolitiche, crisi internazionali e questioni diplomatiche intricate, il governo ha trovato la soluzione definitiva: un bel restyling organizzativo. Perché mai affrontare i problemi strutturali quando si può semplicemente riorganizzare gli uffici e sperare che tutto si sistemi da solo?

La vera genialità di questa riforma sta nell’aver scoperto il potere taumaturgico dei cambi di denominazione. La “Direzione generale per gli affari politici e di sicurezza” diventa “Direzione generale per gli affari politici e la sicurezza internazionale”. Notate l’aggiunta dell’articolo “la”? Ecco, con quella semplice particella abbiamo risolto tutte le questioni di sicurezza internazionale. Putin e Xi Jinping stanno già tremando…

Ma il capolavoro è trasformare la “Direzione generale per la mondializzazione e le questioni globali” in “Direzione generale per l’Africa subsahariana, l’America latina, l’Asia e l’Oceania”. Perché occuparsi della mondializzazione quando si può semplicemente elencare i continenti? È come dire “non ci occupiamo più del clima, ci occupiamo di pioggia, sole, neve e vento”. Brillante nella sua semplicità.

La vera perla di saggezza amministrativa è la soppressione della Direzione Generale per la Diplomazia Pubblica e Culturale – quella che, per intenderci, coordinava gli Istituti Italiani di Cultura e si occupava della promozione della lingua e della cultura italiana nel mondo. D’altronde, in un’epoca in cui la diplomazia si esercita più con le armi che con le idee, a cosa serve la cultura? Molto meglio frammentare competenze e responsabilità tra uffici diversi, come se si trattasse di briciole lanciate ai piccioni in un parco. 

Vedrete che funzionerà a meraviglia. Specialmente se Dante, Michelangelo e Verdi finiranno sotto la gestione di chi si occupa di “crescita ed esportazioni”. La cultura italiana all’estero? Un prodotto come un altro, da mettere a scaffale. E già che ci siamo, speriamo almeno che i funzionari smettano di raccomandare agli enti gestori quale software non acquistare o di suggerire persino il numero minimo di pagine per i quaderni A4 in dotazione agli studenti.

Particolarmente elegante è stata la trasformazione della “Direzione generale per gli italiani all’estero” in “Direzione generale per i servizi ai cittadini all’estero”. Il messaggio è chiaro: non siamo più una comunità, siamo utenti di un servizio. E come ogni buon servizio, sarà gestito da un funzionario amministrativo anziché da un diplomatico. Perché mai affidare le relazioni con milioni di italiani nel mondo a chi ha esperienza nelle relazioni internazionali?

È il trionfo della mentalità da call center applicata alla diplomazia. “Grazie per aver chiamato Italia Esteri, la sua chiamata è importante per noi, rimanga in linea…”

L’unica vera novità è la creazione della “Direzione generale per le questioni cibernetiche, l’informatica e l’innovazione tecnologica”. Finalmente qualcuno si è accorto che esistono i computer! Certo, ci è voluto solo mezzo secolo di ritardo tecnologico, ma meglio tardi che mai. Ora potremo finalmente competere con l’Estonia nella digitalizzazione dei servizi pubblici.

La riforma si basa su “sei assi fondamentali”, numero che non è casuale: sei come le facce di un dado. Perfetto per una riforma che sembra affidata più al caso che alla pianificazione strategica. Questa riforma rappresenta un perfetto esempio di come si possa dare l’impressione di cambiare tutto per non cambiare nulla. È l’arte italiana del trasformismo applicata all’amministrazione pubblica: massimo movimento, minimo progresso.

Mentre il mondo affronta sfide epocali – dalla guerra in Ucraina alla competizione sino-americana, dai cambiamenti climatici alle migrazioni – l’Italia risponde con un elegante gioco amministrativo.

Ci consoliamo pensando che almeno adesso, quando la diplomazia italiana non riuscirà a far sentire la propria voce nel mondo, potremo dire che è colpa della riorganizzazione. È sempre meglio avere una scusa organizzativa che ammettere la mancanza di una visione strategica.

Ecco che “Cambiare tutto per non cambiare niente” non è  più solo una celebre citazione del Gattopardo.