C’era una volta il Festival di Sanremo

Tanti, tanti anni fa c’era un Festival canoro, a Sanremo. Ovvio quindi, chiamarlo Festival di Sanremo. Erano gli anni quando una canzone era una canzone e non un messaggio politico o di genere. C’erano solo uomini e donne che cantavano e vestivano eleganti per l’epoca, perché l’evento veniva trasmesso in Eurovisione e non potevamo permetterci di mostrare un’Italia sciatta e malvestita. C’era un’orchestra e un coro diretti da un direttore d’orchestra. 

Certamente eravamo più innocenti, ma da un festival canoro ci aspettavamo solo una parata di canzoni. E da Sanremo, puntualmente uscivano quei motivetti che canticchiavi tutto l’anno.

Ricordo come fosse ieri la prima volta che, in bianco e nero, vidi Modugno cantare “Libero” e il giorno dopo raccontare a mia sorella che l’aveva ascoltato per radio le mie impressioni. Non vinse Modugno… e ci rimasi male, quasi come se l’Inter avesse perso il Derby della Madonnina!

Era l’anno 1960. Dal collegio di via Palmieri mi feci tutta la strada a piedi fino all’Arcoveggio dove abitavano mia sorella Cledes con il marito Bertino, suo fratello Federico e il nonno Giorgio.

Dal quartiere San Vitale, passando sopra il ponte della stazione centrale era una bella camminata, ma niente di difficile per un ragazzo di 15 anni. Era inverno e c’era la neve ai bordi della strada. Non ricordo molto del mio abbigliamento, ma ricordo il freddo. E soprattutto i piedi bagnati. Durante la notte era nevicato e gli spartineve avevano fatto il loro lavoro, creando dei lunghi corridoi bianchi sul ciglio della strada. Nonostante i calzettoni di lana di nonna Ermelinda, ricordo solo il freddo. Il collegio era freddo e le strade di Bologna erano fredde.

Al collegio, la domenica, davano il permesso di “uscire” per andare in famiglia a quei ragazzi “fortunati” che qualcosa della famiglia avevano ancora. Io avevo una sorella che faceva l’infermiera al Rizzoli, a Bologna, e si era sposata con un bolognese… quindi, se mi comportavo bene, una o due volte all’anno potevo andarla a trovare. Forse avrei potuto visitare la famiglia di mia sorella più spesso, ma qualche volta mi diceva che doveva lavorare fino a tardi, altre faceva il turno di notte, altre ancora Bertino era in trasferta con i cavalli della scuderia Ghigi e andavano a Cesena… c’era sempre una scusa per lasciare il fratellino al sicuro dietro le grandi mura del collegio.

Quella era una domenica speciale. La sera prima, per la prima volta, al collegio ci avevano permesso di seguire in televisione il Festival di Sanremo.

Ero ancora deluso perché il “nostro favorito” Domenico Modugno non aveva vinto. La vittoria andò a Renato Rascel con la canzone Romantica, in coppia con un “urlatore” senza voce, Tony Dallara.

La canzone, a detta di tutti i ragazzi del collegio e perfino di Don Fedinando, era una melensa filastrocca anni ’20… ma vinse. Forse perché alla RAI erano stanchi dei successi di “Mimmo” Modugno che era dato per favorito, interrompendo una “dittatura musicale” voluta dagli ascoltatori, ma apparentemente “dannosa” per gli anziani dirigenti della TV di Stato.

L’edizione 1960 vide anche l’esordio al Festival di Mina che aveva solo qualche anno più di me, ma era anni luce avanti musicalmente delle varie Betty Curtis, Flo Sandon’s e Jula de Palma.

Don Ferdinando non vedeva di buon occhio le cantanti femminili, perché, a suo dire, la musica che cantavano era l’anticamera dell’inferno e ballo e canzoni, sempre a suo modo di vedere, dovevano essere esclusiva maschile, come la musica sacra…

Eppure avevo visto Sanremo in televisione, mentre la famiglia di Cledes aveva solo potuto ascoltarlo alla radio. La televisione non era ancora entrata in tutte le case e, almeno in quello, ero convinto di essere stato privilegiato. Ancora non avevo capito come mai Don Ferdinando ci avesse concesso il permesso di seguire qualcosa che lui stesso considerava come l’anticamera dell’inferno. Non ho mai capito perché per i sacerdoti la musica leggera sia sinonimo di perdizione. Specialmente se parlava d’amore o baci o cose simili. Se poi a cantare era una donna, andava tenuta più lontana possibile. Tutte le donne erano da tenere alla larga, ad eccezione della mamma che era qualcosa di speciale. Don Ferdinando non mi ha mai spiegato la sua logica sul perché se una diventa mamma termina di essere una donna peccatrice. Comunque quella era solo uno delle tante cose che non riuscivo a capire dei cari sacerdoti Dehoniani…

Anche al papà di Bertino, Giorgio, non piaceva la musica, preferiva la conversazione sui cavalli da trotto essendo lui un lavorante nell’ippodromo dell’Arcoveggio assieme ai figli Bertino e Federico.

Giorgio e Federico, soprannominato Cippico dal nome del fantino per cui lavorava, erano intenti a spiegarmi che niente di più bello è paragonabile ai muscoli del cavallo lanciato in corsa verso il traguardo. Da parte mia cercavo di bilanciare la loro teoria con i muscoli del giocatore di calcio che sferra una tremenda pedata ad un pallone per farlo entrare dentro la rete avversaria. Ma ero in minoranza, perché erano tre contro uno.

Nel frattempo la lasagna di Cledes era pronta! Bella, calda, fumante, con tanto parmigiano e tanta carne macinata… ecco, se esiste il pranzo in Paradiso, la lasagna di Cledes avrebbe fatto bella figura!

A pancia piena si ragiona meglio e si canta, specialmente se ad accompagnarla c’era anche un bel bicchiere di Sangiovese! Bertino, dopo l’abbondante seconda porzione di lasagna, mise in tavola TV Sorrisi e Canzoni, una rivista settimanale che pubblicava tutti i pettegolezzi su Sanremo, ma soprattutto tutte le parole delle canzoni partecipanti al Festival. 

Poco dopo Bertino e Giorgio dissero che dovevano andare al trotto. Non ho capito se per lavoro oppure solo per vedere… o giocare alle corse. Mia sorella era piuttosto turbata, forse perché avrebbe preferito passare il pomeriggio tutti assieme in famiglia. Ma da brava moglie “anni ‘60” non tentò nemmeno di far cambiare idea ai due uomini di famiglia.

Rimanemmo tutto il pomeriggio in casa con Federico a sfogliare TV Sorrisi e Canzoni e a canticchiare le canzoni seguendo le parole stampate. Federico aveva una memoria fantastica e dopo una prima lettura era in grado di ripetere la canzone parola per parola e perfino chi erano gli autori.

A Cledes piaceva cantare, ma non ricordo i suoi gusti musicali… Ma ricordo benissimo una cosa di quel pomeriggio: la stufa! Era una stufa a carbone e non ne avevo mai vista una in vita mia. A casa di nonna c’era quella a legna, con gli anelli e la caldaia dell’acqua. 

Ma questa era più piccola, andava “caricata” a carbone e faceva quattro volte più caldo della vecchia cucina economica pre-guerra di nonna Ermelinda. 

E per me quella era la migliore invenzione che il genere umano potesse fare: una cosa per fare caldo. Fuori nevicava, ma dentro era caldo! 

Finalmente vicino a quella stufa mi sentivo caldo e anche le scarpe erano asciutte. La suola si stava staccando, ma erano asciutte come erano asciutti i grossi calzettoni di lana marrone che nonna mi aveva confezionato come regalo di Natale.

Mi sentivo bene. Pancia piena e al calduccio. Assieme a Cledes e Federico continuavo a leggere le parole delle canzoni. La mia “vecchia dada” aveva gusti alquanto antiquati, mentre Federico era più infornato sui cantanti in voga al momento, perfino quelli americani che cantavano in inglese.

Ovviamente mi sentivo moderno anche se non capivo veramente il significato della parola “moderno”. Forse intendevo “diverso” e per forza di cose, se una canzone piaceva a mia sorella era “antidiluviana” mentre se piaceva a me e Federico era “moderna”…

Facemmo una piccola tombola e verso le 4 del pomeriggio salutai quello che era rimasto della famiglia Corticelli. Mi riempirono di caramelle e dolciumi e mi rimisi per strada per tornare al collegio. Ad aspettarmi tutti i miei amici che volevano sapere tutto della mia giornata, ma soprattutto aiutarmi a finire le caramelle. 

Poi cominciai a parlare di “Libero” la canzone di Modugno di cui in un solo pomeriggio avevo imparato le parole. Dopotutto piaceva anche a mia sorella. L’unica canzone su cui ci trovammo in sintonia.

“Libero voglio vivere, come rondine che non vuol tornare al nido” canticchiavo mentre don Ferdinando ripeteva la sua omelia sulla musica e l’anticamera dell’inferno. Continuai imperterrito, anche perché sapevo che tra pochi mesi avrei terminato il collegio e finalmente, per la prima volta nella mia vita sarei stato libero. 

Cledes non ha mai lasciato Bologna, non è mai stata libera… pensavo in quel lontano inverno del 1960. Mentre io già sapevo, senza saperlo, che sarei stato libero e che me ne sarei andato lontano. “Libero voglio vivere, è fantastico, incredibile, libero sono libero”… ancora mi segue e mi impedisce di fermarmi, di accettare per buone solo le cose di ieri e mi aiuta ad accettare il futuro, iniziato quel giorno d’inverno mentre con Federico battevo il pugno sul tavolo per scandire il tempo della musica.

E “Libero voglio andarmene, libero non cercatemi e i ricordi, i ricordi gettarli in fondo al mare”.

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