Le recenti elezioni negli Stati Uniti hanno offerto uno spettacolo politico ricco di drammaticità e contraddizioni. Come spesso accade in politica, le scelte degli elettori sono determinate da una serie di fattori complessi, ma ciò che emerge con maggiore chiarezza è l’enorme polarizzazione tra i principali contendenti: Kamala Harris, vicepresidente uscente e simbolo di un’ala progressista, e Donald Trump, l’ex presidente controverso che non ha mai smesso di essere una figura di rottura.
Partiamo da un’osservazione puramente visiva. Sin dalle prime fasi della campagna elettorale, Kamala Harris sembrava mettere in scena un personaggio costruito ad arte, un sorriso plastificato che difficilmente riusciva a nascondere una certa arroganza e, forse, una dose eccessiva di fiducia nelle sue capacità. La sua figura sembrava più una strategia di marketing che un vero impegno politico, come se fosse il volto di un prodotto da vendere, non tanto una leader capace di raccogliere la fiducia dell’elettorato.
A ben vedere, forse, Harris è stata gettata nella mischia troppo tardi, nonostante le aspettative costruite su di lei. La sua campagna non è riuscita a brillare come quella del presidente Biden nel 2020, e questo ha sicuramente contribuito al suo insuccesso.
Dall’altra parte c’era Donald Trump, un personaggio che non ha mai avuto bisogno di recitare una parte. Trump è sempre stato “se stesso”, anche se questo “se stesso” è stato di volta in volta un po’ goffo, un po’ bullo, ma sempre decisamente autentico nel suo essere controverso. Eppure, questa autenticità, che spesso viene percepita come imperfezione o arroganza, ha trovato un ampio consenso tra milioni di americani. Trump non ha mai nascosto la sua natura. Piuttosto, ha capitalizzato su di essa, guadagnandosi l’affetto di una parte dell’elettorato che apprezza la sua schiettezza e il suo stile diretto. “Amalo o odiarlo”, Trump è sempre riuscito a toccare le corde giuste per conquistare una solida base di supporto, e alla fine la maggioranza lo ha premiato, riconoscendo in lui l’uomo che sapeva parlare “diretto” al cuore dell’America.
Quello che sembra emergere da questa competizione è un paese diviso, dove la polarizzazione politica è diventata una cifra distintiva. Kamala Harris, pur avendo l’intelligenza e l’esperienza necessarie, non ha saputo convincere. E questo nonostante il supporto da parte di un establishment che, nel suo tentativo di mantenere la coerenza politica, ha dato troppo per scontato il consenso popolare. Dall’altra parte, Trump ha continuato a parlare alla sua base, rimanendo una figura coerente con la sua visione del mondo, una visione che, per quanto divisiva, ha trovato una risposta positiva in milioni di americani.
Riflettendo sul risultato delle elezioni, non posso dire di essere sorpreso, ma nemmeno entusiasta. La scelta del popolo americano è il risultato di un processo democratico, che va rispettato, pur nella consapevolezza che non sempre il popolo sceglie ciò che sarebbe meglio per il paese, o per il mondo intero. In fondo, l’America è la prima potenza mondiale e le sue decisioni politiche non possono non avere ripercussioni globali.
Spero, sebbene sia difficile da credere, che Trump mantenga almeno una parte della sua promessa di “terminare la guerra in dieci giorni”. Seppur una dichiarazione eccessivamente ottimistica, rimane un desiderio di chi spera che la sua presidenza non porti ulteriore instabilità al mondo. È difficile, lo ammetto, immaginare che Trump possa realmente riuscire a garantire questo, ma la speranza è sempre l’ultima a morire.