C’è un fenomeno che continua a ripetersi nella nostra comunità: l’ossessione di dover per forza invitare persone che, da anni, non hanno fatto nulla per sostenerla. Figure che vivono di cariche ottenute attraverso favori e metodi discutibili, titoli ingialliti o ricordi lontani, e che vengono considerate (da alcuni omologhi) “necessarie” solo per il nome, senza che abbiano mai dato un vero contributo.
Un esempio chiaro: un ente locale di rappresentanza, invitato ufficialmente a un evento culturale di rilievo, sceglie di ignorare l’invito. Non risponde, non partecipa, non si degna di un semplice riscontro quanto meno di aver ricevuto l’email. L’unico gesto compiuto è aver aggiunto la data sul calendario online, come se fosse un semplice promemoria burocratico. Non un segnale di interesse, non un riconoscimento dell’impegno altrui. Niente.
Eppure, nonostante questa totale assenza, c’è chi insiste: “Devi invitarlo lo stesso”. Come se la presenza formale (di gente incapace) bastasse a dare prestigio a un evento. Come se bastasse un nome su un invito per giustificare decenni di inattività, personalismi e indifferenza.
La verità è semplice: alcune persone, nell’arco di dieci anni, non hanno fatto nulla per la comunità. Hanno occupato spazi, firmato documenti e partecipato a brindisi di circostanza, senza mai costruire, senza mai sostenere, senza mai esserci quando serviva. E oggi, davanti a iniziative che richiedono attenzione e partecipazione autentica, scelgono deliberatamente di ignorare. La storia, presto o tardi, li consegnerà alla loro pochezza istituzionale e umana. Non resteranno i titoli, né gli inviti ricevuti, ma il loro totale vuoto.
Fino a quel momento, ognuno è libero di invitare chi vuole. Ma gli eventi reali, quelli che lasciano traccia, li costruiscono chi lavora, chi partecipa, chi sostiene. Non chi svanisce per dieci anni e si ricorda della comunità solo quando ci sono le elezioni.
La storia vera la scrive chi c’è, e noi ci siamo. Non chi finge di (non) esserci.
