Il miracolo sospeso tra cielo, mare e incompiute

di Emanuele Esposito

È ufficiale: il Ponte sullo Stretto si farà. Di nuovo. E questa volta, giurano, sul serio. Approvato dal Cipess, celebrato dal ministro Salvini come il totem dello sviluppo del Mezzogiorno, il più lungo ponte a campata unica del mondo (3.300 metri, mica bruscolini) è pronto a collegare Calabria e Sicilia. I lavori inizieranno nel 2025 – forse – e si concluderanno entro il 2033 – forse. Costo aggiornato? 13,5 miliardi di euro. In confronto, il Mose era una scommessa da bar.

Ma cos’è davvero questo ponte? Un’infrastruttura strategica o l’ennesimo monumento alla politica dell’annuncio? Un ponte tra due sponde o l’ennesima cattedrale nel deserto da aggiungere alle 372 incompiute italiane (di cui 138 solo in Sicilia, giusto per gradire)? Il ponte sarà tecnicamente affascinante: torri alte 399 metri, corsie stradali e ferroviarie, marciapiedi pedonabili. Uno spettacolo. Peccato che il comitato scientifico abbia già messo il dito nella piaga (o

nella trave, fate voi). Le criticità individuate sono tutt’altro che marginali:

Vento: servono nuove analisi non lineari. Il progetto si basa su studi del 2011. Da allora sono cambiati i software, il clima e probabilmente anche la posizione delle stelle.

Terremoti e vulcani: l’area è sismica, con faglie attive sotto i piloni e il vulcano sottomarino Marsili in agguato. Serve aggiornare la zonizzazione microsismica. Tradotto: occhio che trema.

Sollecitazioni combinate: vento più treni più auto. Quando si dice “il carico della prova”.

Materiali: acciai innovativi, ma con dubbi sull’approvvigionamento e la certificazione. Saranno elastici quanto basta?

Insomma, se fosse un progetto scolastico, l’insegnante ci scriverebbe: bella idea, ma approfondire. 

WWF, Legambiente, LIPU, Italia Nostra, Medici per l’Ambiente, Kyoto Club e i comitati locali come “Invece del Ponte” e “No Ponte – Capo Peloro” sono sul piede di guerra. Parlano di impatti ambientali gravi, carenze nella documentazione e valutazioni VIA insufficienti. Alcuni ricorsi sono già partiti a livello nazionale ed europeo. Le opposizioni parlano di un’opera monstre che compromette l’habitat dello Stretto, patrimonio naturale e culturale unico.

E come dargli torto, quando anche sul fronte logistico la situazione è surreale: il ponte potrebbe essere troppo basso per le navi da crociera e le portacontainer. Secondo il comitato dei 40 esperti (più che un comitato, un congresso), tra l’11 e il 17% delle navi attuali non passerebbe sotto la campata. Addio Gioia Tauro?

Se poi ci si gira a guardare il contesto, viene un po’ da ridere – o da piangere. In Sicilia, ci vogliono ore per fare 100 km. I treni arrancano, le strade sembrano piste di rally, e in alcune zone si è ancora al palo con i collegamenti bus. Ma tranquilli: tra Messina e Reggio Calabria si arriverà in 10 minuti. Poi però ce ne vorranno due ore per andare da Messina a Caltanissetta. A cavallo.

Il CEO di Webuild, Pietro Salini, lo dice con orgoglio: “Il ponte è una sfida tecnologica gigantesca, nel luogo magico dove si incontra la Magna Grecia”. Giusto. Ma in questo luogo magico, se ti rompi una caviglia su una strada provinciale, devi sperare che il 118 abbia la slitta coi cani.

Nessuno è contrario al progresso. Nessuno rifiuta la modernità. Ma ci si chiede: è davvero questa la priorità? In un Sud affamato di ferrovie degne di questo nome, di strade sicure, di ospedali funzionanti, di lavoro stabile, non sarebbe meglio partire da lì?

Il ponte può essere una grande opera, certo. Ma solo se non diventa l’ennesimo monumento all’incompiuto, un simbolo di sprechi, illusioni e passerelle. Costruire il ponte va bene, ma prima – o almeno insieme – costruite tutto il resto.

Perché oggi sembra un po’ come fare un ascensore ultramoderno… in una casa senza tetto.