di Emanuele Esposito
Con il voto del Senato del 30 ottobre 2025, la riforma della Giustizia voluta da Carlo Nordio e dal governo Meloni apre una nuova stagione: la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri diventa realtà. Il disegno di legge costituzionale ha ottenuto 112 voti favorevoli, 59 contrari e 9 astenuti, e passerà ora al referendum confermativo.
La proposta, da tempo discussa, non nasce come bandiera di partito. Giovanni Falcone già nel 1989 sottolineava: “Comincia a farsi strada la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei giudicanti.” Nel 2004 Giuliano Pisapia aggiungeva: “Riconoscere la differenza tra funzione requirente e giudicante significa garantire meglio la magistratura e la sua credibilità.” Il testo approvato introduce due Consigli Superiori della Magistratura distinti, la sorteggiatura dei membri togati, un’Alta Corte disciplinare indipendente e la separazione definitiva di carriera: “Chi sceglie di fare il PM non potrà diventare giudice, e viceversa.”
Nordio lo definisce “un passo verso un giudice realmente terzo”; Giorgia Meloni parla di “un sistema più efficiente e vicino ai cittadini”. Le opposizioni e l’Associazione Nazionale Magistrati denunciano rischi di politicizzazione e aumento dei costi: “Attacco all’indipendenza” e “riforma che altera l’assetto dei poteri”.
La verità sta nel mezzo: la riforma non risolve tutti i problemi della giustizia italiana, ma rafforza l’indipendenza, la credibilità e la fiducia dei cittadini.
Nordio avverte: “Se sarà politicizzato, sarà catastrofico per la magistratura.” Se affrontato come riflessione civile, il referendum potrà finalmente confermare che “la giustizia non appartiene né ai giudici né ai politici, ma ai cittadini.”
