Solo ignoranti e poveri avrebbero votato “No”?

In un recente studio sulle modalità di voto del referendum australiano e sul legame tra fonti mediatiche, percezioni di discriminazione e intenzioni di voto, emergono dettagli che gettano luce sulla complessità del risaluto ma che allo stesso tempo dovrebbero fare discutere.

Indipendentemente dal risultato, tuttavia, è intellettualmente offensivo equiparare il voto “Sì” a un titolo di studio universitario o al reddito come sembrano fare gli istituti statistici. Questa semplificazione eccessiva non tiene conto delle motivazioni e delle convinzioni più profonde dell’elettorato australiano. Accent Research e Octopus Group hanno condotto un sondaggio su 1.204 australiani di età superiore ai 18 anni che erano iscritti a votare per valutare le loro intenzioni di voto appena prima di recarsi alle urne.

Dal sondaggio è emerso che ad influenzare i “Sì” sarebbero stati i livelli d’istruzione e di affluenza economica degli australiani residenti in particolari zone della nazione. Innanzitutto, va detto che la questione della rappresentanza indigena e della voce indigena al parlamento è una questione complessa di cui si discute da oltre due decenni. Per gli elettori non si è trattato solamente di qualifiche accademiche o situazioni economiche.

Gli australiani, provenienti da varie esperienze di vita, culture e con diverse prospettive, hanno espresso il proprio voto in base ai propri valori, credenze e convinzioni individuali. Allo stesso modo, attribuire principalmente le intenzioni di voto alla fonte di informazione scelta rischia di semplificare eccessivamente la questione.

Lo studio ha anche dichiarato che quanti seguono le trasmissioni di Sky News sarebbero stati più propensi a votare “No” mentre i telespettatori dell’ABC avrebbero votato “Sì”. Sebbene lo studio indichi che alcune emittenti tendano a minimizzare la discriminazione subita dagli Aboriginal e dai Torres Strait Islanders, è fondamentale ricordare che l’influenza dei media è solo uno dei molti fattori che determinano la scelta di voto di un elettore.

Le convinzioni delle persone sono state plasmate dalle loro esperienze personali, dal background familiare, dai valori culturali e dalle influenze sociali più ampie, inclusa la capacità dei leader di entrambi gli schieramenti di convincere gli elettori con la forza dei loro argomenti. Inoltre, lo studio suggerisce che l’idea che il referendum avrebbe portato alla “divisione dell’Australia” è stato un fattore significativo per coloro che hanno votato “No”.

È importante rispettare queste preoccupazioni e impegnarsi in un dialogo costruttivo anziché respingerle come prive di validità o irrilevanti. Una democrazia robusta accoglie e affronta punti di vista diversi, si pone domande e trova risposte adeguate alle esigenze reali delle persone più vulnerabili, senza bisogno di arroccarsi a sistemi ideologici. Il fatto che il sostegno alla voce indigena al parlamento sia stato più elevato nelle aree metropolitane delle maggiori città australiane con un’elevata percentuale di laureati non sorprende.

Nel Victoria, i risultati del referendum mostrano una chiara divisione all’interno dello stato definito come il più progressista del paese. I sobborghi dei centri urbani relativamente benestanti hanno votato a favore del “Sì”, mentre gli elettori meno abbienti nelle periferie e nelle regioni esterne hanno sostenuto il “No”. Nel dettaglio, l’elettorato di Melbourne, rappresentato dal leader dei Verdi Adam Bandt, ha registrato la più alta percentuale di voti “Sì” nel paese, con un notevole 78% di elettori favorevoli al cambiamento costituzionale. Al contrario, l’elettorato di Scullin, nella periferia nord di Melbourne, ha respinto la proposta con il 62,6% dei voti contrari.

Nel Queensland, solo tre seggi hanno sostenuto il referendum: i seggi di Ryan, Brisbane e Griffith, tutti situati nel centro di Brisbane e rappresentati da membri dei Verdi. Brisbane ha ottenuto la percentuale più alta a favore del “Sì” nello stato con il 56,7%, mentre l’elettorato di Capricornia nel Queensland centrale ha respinto la voce con oltre l’80% dei voti contrari.

Una chiara differenza è emersa anche tra i seggi del centro e quelli delle periferie di Sydney. Gli elettorati urbani hanno per lo più votato “Sì”, tra cui il seggio di Sydney di Tanya Plibersek, il seggio di Grayndler di Anthony Albanese e i seggi di Wentworth e Warringah detenuti dai sostenitori del “Sì”. Tuttavia, il seggio di Mackellar è rimasto in bilico con appena il 50,7% di voti a favore del “Sì”.

Un’eccezione è stato il seggio del sud-ovest di Barton, che include Rockdale, Earlwood e la parte meridionale di Marrickville, dove il “No” ha vinto con il 56%. Il seggio è rappresentato dalla Ministra degli Affari degli Aborigeni, Linda Burney, uno dei personaggi di spicco della campagna per il “Sì”. Benché l’istruzione spesso espone le persone a prospettive più ampie e può favorire una maggiore consapevolezza delle questioni sociali e politiche, questo dato non può essere utilizzato per mettere in discussione la legittimità di quanti vivono nelle periferie o suggerire che l’istruzione renda le opinioni di alcuni più valide di altre. Il referendum sulla voce indigena e i fattori che hanno influenzato il voto degli australiani rimangono senza dubbio più ampi.

Gli stessi fenomeni ideologici e identitari che spingono interi elettorati a gravitare verso partiti estremisti come i Verdi non sono da escludere neppure per il risultato del referendum. Sebbene la ricerca possa offrire spunti interessanti, è essenziale evitare di ridurre i dati statistici a generalizzazioni semplicistiche che trascurano le diverse esperienze, convinzioni e il livello di informazione degli elettori non aiuta la coesione di cui la società australiana ha bisogno dopo il fallimento del referendum. Un minimo di integrità intellettuale richiede un esame sfumato e rispettoso delle tematiche legate al risultato, tenuto conto della diversità multiculturale dell’Australia.

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