Trump–Putin: il valore di sedersi allo stesso tavolo

Un seme di pace in un mondo che ha dimenticato di parlare

C’è chi ha definito il vertice di Anchorage tra Donald Trump e Vladimir Putin “un nulla di fatto”. Eppure, io credo che in questo “nulla” ci sia molto più di quanto vogliono farci credere.

Viviamo in un tempo in cui la guerra è diventata la normalità, in cui i bilanci degli Stati destinano più fondi alle armi che alla cultura, all’istruzione o alla sanità. Un tempo in cui le cancellerie si parlano solo attraverso comunicati ufficiali e sanzioni. In questo scenario, due leader che si siedono uno di fronte all’altro valgono più di cento trattati mai firmati.

Trump non è un diplomatico “classico”: divide, scuote, provoca. Ma ha avuto il coraggio di fare ciò che tanti altri non hanno osato: guardare Putin negli occhi e parlare. Non importa se il risultato immediato è stato solo un comunicato di circostanza. Importa che il filo del dialogo non sia stato spezzato. Putin, dal canto suo, ha trovato nell’incontro un riconoscimento che difficilmente l’Europa gli avrebbe concesso. Ma al tempo stesso ha dovuto ascoltare, discutere, rispondere. E questo, in diplomazia, non è mai un dettaglio.

La pace, lo sappiamo, non nasce mai da un applauso fragoroso. Nasce dal silenzio di una stretta di mano, da una parola che rompe l’orgoglio, da un gesto che dimostra che non tutto è perduto. Questo vertice è stato esattamente questo: un seme.

Molti storceranno il naso, diranno che “non è cambiato nulla”. Ma la verità è che senza gesti simbolici non esisterebbero mai i passi concreti. La storia ce lo insegna: la pace è un cammino che inizia sempre con il coraggio di parlare.

Perciò sì, io leggo questo incontro come un segnale positivo. In un mondo che ha dimenticato la diplomazia, due uomini che si parlano valgono più di due eserciti che si fronteggiano. Non è la fine della guerra, ma è l’inizio della possibilità di immaginare la pace.