Quando una conferenza sul clima registra ben 51.000 delegati accreditati in undici giorni, qualcosa non torna.
Al COP29 di Baku, infatti, gli illustri partecipanti non sono certo arrivati a piedi. Tra il boom di affari per hotel, agenzie di viaggio e compagnie aeree, sorge spontanea la domanda: a cosa servono questi summit mondiali per ridurre il consumo di combustibili fossili, quando vengono ospitati proprio in paesi che vivono di petrolio?
Quest’anno, i presupposti del COP29 non sono stati dei migliori. Alla presidenza, il testimone è passato dal dirigente petrolifero Sultan Ahmed Al Jaber (a capo della COP28 negli Emirati Arabi) al ministro azero Mukhtar Babayev, ex manager della compagnia petrolifera di Stato SOCAR. Un inizio che già lascia perplessi.
A complicare il quadro, la nuova presidenza Trump negli Stati Uniti, che getta un’ombra sul summit: il paese con il maggior peso politico potrebbe presto uscire dagli Accordi di Parigi, con Trump già dipinto come il “cattivo” della situazione. Tuttavia, pochi ricordano che anche la Cina, pur firmataria degli stessi accordi, non li ha rispettati, continuando a essere il principale emettitore di CO2 al mondo con 9,9 miliardi di tonnellate, più del doppio degli Stati Uniti e quattro volte l’India.
E l’Europa? Bruxelles si vanta di aver ridotto dell’8,3% le emissioni nel 2023 rispetto al 2022. Peccato che, con il suo 7% del totale mondiale, l’Europa conti poco nel bilancio globale. La sola Cina produce più CO2 di Stati Uniti, Unione Europea, India e Russia messe insieme.
La partita di Baku si gioca anche sulle compensazioni ai paesi poveri, per un totale ipotetico di mille miliardi di dollari: una somma colossale che, probabilmente, nessuno pagherà davvero. Così, anche questa conferenza rischia di concludersi con un nulla di fatto, un pessimo presagio per il futuro del clima mondiale.
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