Bocelli e canti popolari ai funerali italiani sono il frutto di una pessima formazione

La celebrazione dei funerali cattolici nelle comunità italiane in Australia sta assumendo tratti sempre più grotteschi e desolanti. L’altare si è trasformato in un palcoscenico dove si recita una sceneggiata intrisa di sentimentalismo facile, nostalgia fuori contesto e totale mancanza di consapevolezza liturgica. Brani come “Time to Say Goodbye”, “Mamma son tanto felice” o “Campagnola bella” dominano le cerimonie funebri, spodestando salmi, antifone e inni propri della liturgia cristiana. È la vittoria del profano sul sacro, del gusto personale sulla teologia, dell’intrattenimento sulla preghiera.

Ma ciò che rende ancora più evidente la decadenza del rito è il fatto che a organizzare questi funerali siano ormai figli e nipoti di emigrati italiani che della fede cattolica conservano solo vaghi ricordi d’infanzia, se non una totale ignoranza. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di persone che mettono piede in chiesa solo a Natale, a Pasqua o in occasione di un battesimo di famiglia, e che non hanno mai ricevuto una vera formazione catechistica. 

Questa superficialità religiosa non è colpa loro: è il risultato diretto di un fallimento pastorale che affonda le radici negli anni ’80 e ’90, quando la Chiesa locale ha scelto — con colpevole leggerezza — di non investire nell’educazione alla fede delle nuove generazioni. Mentre i nonni e i genitori portavano ancora dentro di sé una fede popolare e spesso sincera, i loro figli venivano lasciati a un cattolicesimo vago, fatto di simboli senza spiegazione, di abitudini senza radici.

Oggi ne paghiamo le conseguenze. Quando questi adulti, ormai totalmente slegati dalla comunità ecclesiale, si trovano a dover organizzare il funerale di un genitore o di un nonno, non sanno nemmeno da dove cominciare. Si affidano allora al ricordo sbiadito di qualche canzone che il defunto amava, credendo — in buona fede — che inserire quella musica renda omaggio alla sua memoria. 

Non si rendono conto che un funerale non è una celebrazione del passato del defunto, ma un atto di fede nel suo futuro, nel mistero della risurrezione. E il clero, invece di guidare, educare, correggere, acconsente. Troppo spesso, per paura di essere impopolare o per non rischiare un’offerta più magra, il sacerdote chiude gli occhi e lascia che la liturgia venga travolta.

Questa complicità è vergognosa. In alcuni casi si arriva addirittura a pianificare l’intera celebrazione come fosse un evento privato, fatto su misura, in cui la Parola di Dio viene relegata a un riempitivo tra una canzone strappalacrime e una commemorazione fuori luogo. 

Si ignora — deliberatamente — che esistono direttive chiare da parte della Chiesa. Già nel 2010, l’arcivescovo di Melbourne aveva vietato espressamente l’uso di musica pop, romantica, rock o sportiva durante i funerali cattolici. Ma queste direttive sono rimaste sulla carta. Nella pratica, si preferisce lasciar correre, per “non fare polemica”, per “rispettare i sentimenti”, per “evitare problemi”. Ma il risultato è uno solo: il funerale cattolico ha perso identità, senso, verità.

La messa non è un contenitore da riempire con ciò che “piace”. È un linguaggio sacro, con regole e simboli che parlano della fede. E se la fede non c’è più, allora si abbia almeno il coraggio di non strumentalizzare la liturgia. Se si vuole fare un omaggio musicale al defunto, lo si faccia alla fine, fuori dalla chiesa, oppure al cimitero. Ma dentro l’altare, dentro il mistero della Messa, deve esserci solo ciò che è orientato a Dio, alla salvezza, alla speranza cristiana.

Il clero ha il dovere — non la facoltà — di ristabilire il senso profondo della liturgia. Deve avere il coraggio di dire dei no. Deve educare le famiglie, spiegare il perché di certe scelte, recuperare il ruolo di guida spirituale e non limitarsi a fare il cerimoniere. 

E le comunità, da parte loro, devono essere aiutate a riscoprire il valore della preghiera, del silenzio, della liturgia come atto di fede. Perché non c’è nulla di più triste di un funerale che, nel tentativo di onorare chi è morto, finisce per svuotare di senso tutto ciò in cui credeva.