Calcio – 100 anni fa nasceva Bruno Pesaola il grande “Petisso” idolo del Napoli anni 60

Al Napoli ha giocato e poi allenato molte volte, alla lavagna  la tattica con l’immancabile sigaretta
Con l’anima posata tra Buenos Aires e i vicoli di Napoli, Bruno Pesaola ha giocato, allenato e vissuto il calcio come una piccola religione domestica, come un rito quotidiano della propria umanità.

Pesaola nasce il 28 luglio 1925 a Buenos Aires, ad Avellaneda, cresce tra i quartieri dove il calcio è qualcosa a metà tra una lotta di classe e una fuga dai problemi. Gioca da attaccante e arriva in Italia subito dopo la guerra, qualche infortunio lo frena alla Roma, si fa conoscere bene al Novara. Ma sarà Napoli il suo destino, appena vi approderà nel 1952. Assorbe la furbizia, la scaltrezza, la solarità di una città che, come lui, sa vivere.

Lo chiamavano “il Petisso”, il piccolo. Al Napoli ha giocato e poi allenato molte volte, quasi fosse sempre rimasto lì, al San Paolo, a spiegare la tattica con la sigaretta accesa e il sorriso malinconico. Non era veloce, ma aveva visione, quel talento che non si impone agli occhi, ma si percepisce. 

Era un ragionatore del dribbling, un cesellatore del passaggio, un uomo che giocava più con la testa e con la sensibilità del piede che con la potenza. Il suo calcio era un tango sussurrato, fatto di passi brevi, di un’eleganza quasi dimessa. È stato lungamente in campo: 14 stagioni, 394 partite in serie A, buono anche il suo bottino di gol, 62.

Come allenatore ha plasmato squadre con pochi moduli e molta filosofia. Al Napoli porta la Coppa Italia nel 1962, l’unica vinta da una squadra di serie B, e piazzamenti importanti in seguito. La sua squadra degli anni ’60, con Sivori e Altafini, non vinse lo Scudetto, ma deliziò. 

Era un calcio di bellezza effimera, di gesti tecnici che restavano negli occhi, di pomeriggi memorabili in un San Paolo spesso sold out. Si accomodava in panchina con il suo famoso cappotto color cammello. Intelligentissimo e furbo, uno spasso sentirlo parlare.

Da lì il viaggio continua alla Fiorentina, dove nel 1969 vince lo Scudetto contro ogni pronostico. Quella Fiorentina non era la più forte, non aveva i nomi altisonanti delle grandi di Milano o Torino, non aveva gli straordinari attaccanti del Cagliari. 

Era una squadra di ragazzi, di scommesse vinte, di qualche uomo esperto. De Sisti, Merlo, Chiarugi, Amarildo, Maraschi: Pesaola non li imbrigliava, li metteva in condizione di esprimere la loro arte. Era un sarto che cuciva l’abito sul calciatore. Un campionato vinto con un gioco a tratti spregiudicato, a tratti quasi naif, ma sempre efficace. 

Non c’erano dogmi, solo la capacità di leggere la partita, di adattarsi, di tirare fuori il coniglio dal cilindro al momento giusto.

Allenò a lungo anche il Bologna, portò anche lì una Coppa Italia, sempre con quell’aria da professore di storia prestato al pallone. Alla fine le panchine in serie A furono 413, tantissime.

Il calcio di Pesaola era leggero e profondo, come le sue origini argentine mescolate all’ironia mediterranea. Non apparteneva agli allenatori che comandano, ma a quelli che convincono. Non si scomponeva, non si lamentava. Era un filosofo del pallone, un uomo che aveva capito che il calcio è vita, e come la vita, è imprevedibile.