Giancarlo Antognoni, nato numero dieci 

Testa alta e classe sopraffina, idolo di tutti nel decennio 75/85. Un grande giocatore con pochi eguali
“Ero innamorato di Rivera, del suo estro e della sua anarchia. Oggi sarei a disagio in campo: gli allenatori contano troppo”. Giancarlo Antognoni non ha mai smesso di sentirsi un numero dieci, nemmeno ora che la carriera da calciatore è alle spalle. Esce di casa e le persone lo riconoscono, lo fermano per una foto o un autografo. 

Per lui è come se la partita non fosse mai finita: “Ve lo assicuro, per me è ancora davvero come quando giocavo. Le stesse sensazioni, le stesse emozioni. Esco di casa la mattina e fino a sera la gente saluta e sorride, mi chiedono autografi e selfie. È come giocare una partita che non finisce mai. Magari ho vinto poco, ma l’affetto di Firenze compensa tutto il resto”.

A chi gli chiede se ha qualche rimpianto risponde onestamente: “Mi hanno corteggiato tante società, ma non ho rimpianti. Rifarei esattamente quello che ho fatto. Ogni mia decisione è sempre sofferta, ma non mi pento mai. O meglio, un rimpianto ce l’ho, anche se sono campione del mondo, non sono riuscito a far vincere di più la Fiorentina”. 

Il pensiero va subito a quello scudetto sfuggito nel 1982, e non dimentica l’incidente con Martina del Genoa: “L’avremmo meritato, quella era una squadra moderna, giocava un gran calcio. Purtroppo sono rimasto fuori 15 partite per il terribile scontro con Martina del Genoa e, senza nulla togliere a chi mi ha sostituito, credo che con me quei due punti in più che servivano li avremmo fatti”.Antognoni ha rischiato la vita su quel campo, ma quello che oggi pesa di più è non aver regalato una gioia storica a Firenze: “Penso a quanto avrebbe goduto Firenze, alla gioia, alle lacrime, alla follia. Avrei dato la felicità a migliaia di persone e non ci sono riuscito”.

Racconta che di quel giorno ricorda tutto fino al colpo di testa, poi il buio. Con Martina si sono rivisti e abbracciati, nessun rancore: “Ci siamo rivisti e abbracciati. Non l’ha fatto apposta. Non porto rancore, se posso porto gioia”.

Oggi, a 71 anni, si definisce “un uomo felice”. Il calcio gli ha dato tutto: popolarità, sicurezza economica, affetti sinceri. “Il calcio mi ha dato tanto. Tutto. La notorietà, i soldi, gli affetti. Ho una bellissima famiglia che sento sempre vicina e mi ha sostenuto nei momenti di difficoltà. Ho fatto quello che ho sempre desiderato: giocare al pallone”.

Da piccolo stravedeva per Rivera, a dodici anni si fece portare a Bologna solo per vedere il Milan: “Da bambino ero innamorato di Gianni Rivera, mi piaceva il suo estro, la fantasia, anche l’anarchia. Dormivo con il pallone sotto il cuscino.

Il Torino lo aveva scoperto, ma il richiamo di Firenze fu più forte. “Volevo avvicinarmi a casa, la Fiorentina mi ha notato a Coverciano nella Nazionale juniores e non ci ho pensato un minuto”. Mezzo secolo di storia con la maglia viola: “L’anno prossimo la Fiorentina compirà cent’anni, cinquanta sono i miei”.Per Antognoni il piacere di giocare era unico: “Noi eravamo più ingenui, ma giocavamo per divertirci e questo ci dava una grande felicità”.

Se potesse tornare in campo, pensa che forse potrebbe adattarsi, ma il calcio moderno gli starebbe stretto: “Per le mie caratteristiche penso di poter essere adatto anche al nuovo modo di giocare, il calcio mi piace sempre, ho la stessa passione, ma sarei a disagio. Intanto per le pressioni e le tensioni che ci sono attorno ai giocatori. Noi eravamo più liberi di vivere una vita normale e più liberi in campo. L’allenatore conta molto di più, l’organizzazione è ferrea. Nel mio calcio ideale quei tre o quattro davanti li lascerei sempre liberi di inventare”.