Itavia, inizio e fine di una storia tragicamente italiana

di Severino Corniglia

Nel dopoguerra, l’Italia cercava di rialzarsi anche nei cieli. Le linee aeree nazionali si stavano riorganizzando, ma molte città restavano isolate, fuori dalle rotte dei grandi vettori. Fu in questo contesto che, il 13 ottobre 1958, nacque a Roma la Itavia – Società di Navigazione Aerea, con una missione chiara: collegare i centri urbani trascurati dalla rete aerea esistente.

La compagnia mosse i primi passi dal piccolo aeroporto dell’Urbe, puntando sulla mobilità interna in un paese che, tra ferrovie lente e autostrade ancora in fase embrionale, aveva fame di collegamenti. 

Il primo velivolo fu un bimotore britannico De Havilland D.H.104 “Dove”, ex proprietà del Gruppo FIAT, battezzato I-AKET. La tratta inaugurale fu la Roma-Pescara, aperta il 15 luglio 1959: in pochi mesi furono trasportati oltre 1.500 passeggeri. Un risultato incoraggiante, tanto da spingere la dirigenza a investire su una flotta più ampia: sei quadrimotori De Havilland “Heron”, capaci di 14 posti.

Tuttavia, la fortuna sembrava già voltare le spalle alla giovane compagnia. Il 14 ottobre 1960, un volo Genova-Roma si schiantò contro il Monte Capanne, all’Isola d’Elba, in condizioni meteo proibitive. 

Morirono otto passeggeri e due membri dell’equipaggio. L’incidente, amplificato da una stampa allarmista e forse anche da pressioni interne al mondo dell’aviazione – in primis da Alitalia, che vedeva nella nuova compagnia un concorrente scomodo –, rischiò di affondare l’Itavia. I voli furono sospesi, ma non la determinazione.

Nel 1962, grazie all’ingresso del principe Giovanni Battista Caracciolo, con nuovi capitali e ambizioni rinnovate, la compagnia rinacque come Aerolinee Itavia. La flotta si arricchì dei leggendari Douglas DC-3 – solidi bimotori di origine militare – e la base operativa si spostò all’aeroporto di Ciampino, più adatto alle nuove esigenze. 

Ma il destino colpì ancora: il DC-3 I-TAVI, proveniente da Pescara, precipitò sul Monte Valeronote, vicino a Sora, nel dicembre 1962. Nessun superstite. Nel 1965 un nuovo cambio di rotta: al posto del principe Caracciolo subentrò Aldo Davanzali, imprenditore marchigiano, che acquistò la maggioranza delle azioni. 

Visionario e ambizioso, Davanzali volle trasformare Itavia in una vera compagnia nazionale alternativa, puntando su sicurezza, modernizzazione e una rete di collegamenti capillare. 

La prima mossa fu l’acquisto degli Handley Page H.P.R.7 Dart Herald, biturbina inglesi con cabina pressurizzata, più comodi e affidabili.

Gli anni successivi furono segnati da espansione e rinnovamento. Itavia si lanciò sulle tratte internazionali e adottò i nuovi jet: i Fokker F.28 Mk.1000 a partire dal 1969 e, dal 1971, i più capienti e performanti Douglas DC-9, in diverse versioni. L’azienda sembrava finalmente aver trovato il proprio spazio nei cieli d’Italia.

 Volava tanto, volava ovunque. E lo faceva a modo suo: senza sfarzi, ma con una sorprendente regolarità e spirito di servizio. Ma la storia di Itavia – come molte storie italiane – è attraversata da ombre. Il 1° gennaio 1974, il Fokker F.28 I-TIDE precipitò all’aeroporto di Torino-Caselle durante la fase di atterraggio.

 Fu una tragedia, ma ciò che accadde sei anni dopo cambiò tutto. Il 27 giugno 1980, il volo IH870 decollato da Bologna e diretto a Palermo con a bordo 81 persone, scomparve dai radar nei cieli sopra Ustica. Il relitto fu ritrovato in mare: nessun sopravvissuto. L’Italia fu sconvolta. Ma oltre al dolore, iniziarono le domande.

Le indagini furono un labirinto di omissioni, silenzi, depistaggi. Si parlò di missile, di battaglia aerea, di coinvolgimenti NATO, di tracciati radar scomparsi. Quel che è certo è che la verità rimase sepolta, insieme alle vittime. 

E Itavia, già provata da anni di difficoltà e pressioni, fu lasciata sola. Il 10 dicembre 1980 i voli cessarono definitivamente; il 31 luglio 1981 la compagnia fu messa in amministrazione straordinaria. La storia di Itavia è tragica perché racconta non solo la caduta di una compagnia aerea, ma anche il fallimento di un intero sistema. 

È una vicenda che unisce intraprendenza e coraggio a disinteresse istituzionale, silenzi di Stato e miopia industriale. Itavia è il simbolo di ciò che l’Italia avrebbe potuto essere – una nazione capace di valorizzare il dinamismo privato e di garantire trasparenza – e che invece spesso non è riuscita a diventare.

Oggi, guardando indietro, Itavia non è solo un nome sulle livree di vecchi DC-9. È una pagina della nostra storia civile e industriale, scritta da pionieri, cancellata da chi avrebbe dovuto proteggerli. 

Avrebbe potuto essere salvata. Ma, come spesso accade in Italia, non conveniva a nessuno.