La Befana: la vecchia con la scopa che viene dalla notte dei tempi

di Maria Grazia Storniolo

La Befana vien di notte,

con le scarpe tutte rotte,

col cappello alla romana…

viva, viva la Befana!

Poche filastrocche sono riuscite, come questa, a fissarsi così profondamente nell’immaginario collettivo italiano. La Befana è una figura familiare, quasi domestica: una vecchietta un po’ malandata ma generosa, che vola nella notte tra il 5 e il 6 gennaio per portare doni ai bambini. 

Eppure, dietro quella scopa, quel sacco rattoppato e quel volto segnato dal tempo, si nasconde una storia antichissima, che affonda le radici ben oltre il cristianesimo, nella notte dei tempi e nei riti magici delle civiltà contadine.

Il nome stesso “Befana” è il risultato di una lunga trasformazione linguistica. Deriva dal termine greco Epipháneia, che significa “apparizione” o “manifestazione”. 

Nel mondo cristiano l’Epifania celebra la manifestazione di Gesù al mondo, rappresentata simbolicamente dalla visita dei Re Magi. Con il passare dei secoli, la parola “Epifania” si è trasformata nel linguaggio popolare in “Befania”, poi “Befana”, assumendo una connotazione autonoma e profondamente legata alla tradizione popolare.

Ma ridurre la Befana a una semplice declinazione folkloristica dell’Epifania cristiana sarebbe limitante. La vecchina che vola nella notte porta con sé significati ben più antichi, che parlano di cicli naturali, di fine e rinascita, di morte simbolica e di nuovo inizio.

Prima ancora che fosse associata ai Magi e al cristianesimo, la Befana era una figura legata ai riti agricoli precristiani. 

Le popolazioni italiche e mediterranee celebravano, nei giorni immediatamente successivi al solstizio d’inverno, la fine dell’anno agricolo e l’inizio di uno nuovo. I dodici giorni che seguivano il solstizio – e che culminavano proprio intorno al 6 gennaio – erano considerati un periodo “sospeso”, carico di significati magici.

In questo contesto nasce l’immagine di una divinità femminile anziana, che rappresenta l’anno vecchio, ormai esausto, pronto a morire per lasciare spazio al nuovo ciclo. 

La sua bruttezza non è un difetto, ma un simbolo: è la vecchia stagione che si consuma, la terra che ha dato tutto ciò che poteva dare. Il suo volo notturno sopra i campi non è una fantasia infantile, ma un gesto propiziatorio, un augurio di fertilità per il raccolto futuro.

Il carbone che la Befana porta non è una punizione, ma un residuo di cenere: ciò che resta dopo il fuoco, da cui può nascere una nuova vita. Nonostante la scopa e l’aspetto trasandato possano farla somigliare a una strega, la Befana non è mai stata una figura maligna. 

Al contrario, è una presenza ambivalente ma benevola, capace di distinguere tra buoni e cattivi senza mai essere davvero punitiva. Anche il carbone, oggi spesso fatto di zucchero, ha più il sapore della burla che della condanna.

A differenza di altre figure del folklore europeo, la Befana non incute paura. È una nonna collettiva, un’archetipo familiare che unisce severità e tenerezza. Il suo volto segnato dal tempo racconta saggezza, esperienza, memoria. È una custode delle tradizioni, una testimone silenziosa del passaggio delle generazioni.

Secondo la tradizione, nella notte tra il 5 e il 6 gennaio la Befana vola sui tetti, spostandosi di casa in casa, calandosi dai camini per riempire le calze lasciate appese dai bambini. Nel suo sacco trovano posto dolci, giocattoli, frutta secca e caramelle, ma anche cenere e carbone per chi, durante l’anno, non si è comportato proprio benissimo.

I bambini, dal canto loro, partecipano attivamente al rito: lasciano sul tavolo un piatto con un mandarino o un’arancia e un bicchiere di vino, come segno di accoglienza.

 Al mattino, il cibo è consumato, la cenere sparsa, e talvolta si racconta di un’impronta lasciata dalla Befana, prova del suo passaggio notturno. È un gioco di complicità tra adulti e bambini, un patto silenzioso che alimenta l’incanto.

La tradizione cristiana ha cercato di integrare questa figura pagana in una narrazione compatibile con l’Epifania. Secondo una leggenda popolare, i Re Magi, in viaggio verso Betlemme, avrebbero chiesto indicazioni a una vecchina. 

Invitata a unirsi a loro, la donna avrebbe rifiutato, troppo presa dalle faccende domestiche. Pentitasi poco dopo, avrebbe cercato il Bambino Gesù portando con sé dei doni, senza però riuscire a trovarlo. Da allora, continuerebbe a volare di casa in casa, regalando doni a tutti i bambini, nella speranza di incontrare finalmente il Bambino.

È un racconto semplice, ma profondamente simbolico: la Befana diventa così una figura di redenzione, di ricerca, di amore universale.

L’iconografia della Befana è rimasta sorprendentemente stabile nel tempo. Indossa un gonnellone ampio e scuro, un grembiule con tasche profonde, uno scialle sulle spalle e un fazzoletto o un cappellaccio in testa. Le toppe colorate sui vestiti non sono solo un dettaglio pittoresco, ma un segno di povertà dignitosa, di una vita vissuta fino in fondo.

Le “scarpe tutte rotte” della filastrocca raccontano il lungo viaggio della Befana, il suo instancabile andare, notte dopo notte, secolo dopo secolo. In un mondo sempre più globalizzato, dominato da figure importate e modelli commerciali, la Befana continua a resistere come simbolo autenticamente italiano. 

Non è patinata, non è giovane, non è perfetta. È imperfetta, stanca, vera. E forse è proprio per questo che continua a parlare al cuore di grandi e piccoli.

La Befana chiude il periodo natalizio, ma non lo spegne. Anzi, lo accompagna dolcemente verso la quotidianità, ricordandoci che ogni fine porta con sé un nuovo inizio. Come l’anno vecchio che muore per lasciare spazio al nuovo, la vecchina con la scopa ci insegna che il tempo passa, ma le tradizioni – quelle vere – sanno volare sopra i secoli.