L’Italia guardi a Est. Non c’è altra alternativa

Se l’Italia vuole rimanere un attore economico competitivo nei prossimi vent’anni, deve smettere di cullarsi nella convinzione che Stati Uniti e Unione Europea saranno sempre mercati sicuri e accoglienti. Non è più così. Lo abbiamo visto quando l’amministrazione Trump ha imposto dazi pesanti, colpendo settori chiave del Made in Italy. E se oggi quei dazi sono un ricordo momentaneamente attenuato, nulla ci assicura che non torneranno, magari più duri, più selettivi, più mirati contro i nostri punti di forza. Il rischio è reale, e chi governa non può più ignorarlo.

In questo scenario, il Sud-Est Asiatico e l’Oceania non sono una suggestione lontana, ma l’unica strada logica, strategica e urgente. L’ASEAN, con i suoi oltre 650 milioni di abitanti e un PIL aggregato di 2,6 trilioni di dollari, è oggi la quinta economia mondiale e, secondo le previsioni della Banca Mondiale, entro il 2030 potrebbe scalare al quarto posto. Nel 2024, le esportazioni italiane verso l’area sono cresciute dell’11 %, raggiungendo quasi 10 miliardi di euro. 

Paesi come il Vietnam hanno segnato incrementi record, con un +25 % sull’export Made in Italy, rendendo l’Italia il secondo fornitore europeo di questo mercato, dietro solo alla Germania. E l’Oceania non è da meno. Nel 2024, l’Italia ha esportato in Australia per 5,91 miliardi di dollari, con una domanda forte in settori ad alto valore aggiunto come macchinari, farmaceutica, automotive, apparecchiature elettroniche e prodotti alimentari di qualità. In Nuova Zelanda, le esportazioni italiane hanno superato i 696 milioni di dollari, con margini di crescita importanti in settori ancora poco presidiati.

Il punto è che il governo non può permettersi di restare fermo. Non si tratta di aprire qualche tavolo di lavoro o organizzare missioni istituzionali tanto per fare numero. Serve una strategia organica, coordinata, continua, che metta insieme diplomazia, business e promozione culturale. E serve farlo ora, perché altri Paesi europei — Germania in testa — sono già più presenti di noi in quell’area e occupano spazi che, una volta persi, sono difficili da riconquistare.

Qui entra in gioco un elemento che troppo spesso in Italia viene sottovalutato: la rete delle Camere di Commercio italiane all’estero. Non sono solo vetrine o club per imprenditori in cerca di contatti, ma potenziali motori di penetrazione commerciale. Hanno conoscenza diretta dei mercati locali, relazioni radicate con operatori e istituzioni, capacità di aprire porte che per un’azienda italiana, da sola, resterebbero chiuse. Eppure, troppo spesso queste strutture vivono con risorse ridotte al minimo, iniziative non coordinate, assenza di un vero mandato strategico da parte di Roma.

La politica deve fare pressione perché questo cambi. Le Camere di Commercio, insieme a ICE e agli uffici diplomatici, devono essere messe in condizione di lavorare come una squadra unica, con obiettivi chiari e budget adeguati.