di Luigi De Luca
Partecipando al pranzo di Ferragosto organizzato dalla Federazione Siciliani d’Australia, ho provato una sensazione familiare, quasi dimenticata: il calore di una comunità che si ritrova attorno a una tavola, con piatti tradizionali, risate, racconti e quella tipica allegria siciliana che sa trasformare un semplice incontro in una festa.
Mi ha riportato indietro di decenni, a quando la comunità italiana, pur con meno mezzi e meno ricchezza, trovava sempre il modo di celebrare insieme la propria identità. È proprio da questo ricordo, e dal confronto con quello che oggi vivono altre comunità, che nasce la riflessione che segue.
Quando si parla di Ferragosto, per noi siciliani non è solo una data sul calendario. È profumo di casa, di risate in famiglia, di tavole imbandite e di ricordi che sanno di mare, sole e mandorle tostate. E quest’anno, il 16 agosto 2025, la Federation of Sicilians in Australia ci ha invitati a ritrovare tutto questo nel cuore di Sydney, al Club Marconi, per un pranzo che prometteva di essere memorabile. In questi anni, osservando anche le comunità sudamericane, africane, indiane e arabe festeggiare con balli, canti e tavole piene di piatti tradizionali, mi è venuta una domanda semplice e fastidiosa: e noi italiani?
Una volta, la nostra comunità all’estero si riuniva per una sagra, una festa patronale, un pranzo sociale. Si cantava, si ballava, si litigava pure, ma lo si faceva insieme. Oggi, sembra che l’unica “festa” sia scrollare il telefono sul divano con un bicchiere di vino. Altre culture hanno trasformato il loro folklore in un brand identitario forte (danze, cibo, abiti), creando curiosità anche fuori dalla comunità. Noi italiani, paradossalmente, abbiamo diffuso così tanto la nostra cucina e cultura che ormai “pizza e pasta” sono ovunque, e quindi non sembrano più eventi speciali… anche se avrebbero ancora molto da dire e da mostrare. Forse siamo diventati troppo “moderni” per cucinare le lasagne della nonna insieme agli altri? Forse la tarantella e il liscio li abbiamo messi in soffitta, tra il servizio buono e il presepe di Natale? Intanto, le altre comunità si prendono le piazze, raccontano le loro storie, mostrano con orgoglio chi sono… e noi?
Ci limitiamo a dire “Eh, una volta sì che si facevano feste…”. In molte culture, il passato è visto come radice e orgoglio da esibire. In parte dell’Occidente, invece, il passato è percepito come “da superare”, in favore della modernità e della globalizzazione, e questo porta a celebrare meno le proprie tradizioni.
Il bello è che la nostra cultura è ancora amata in tutto il mondo.
Ma se non la viviamo noi, chi dovrebbe farlo? Forse dobbiamo smettere di pensare che “pizza e pasta” bastino a rappresentare l’Italia e tornare a fare quello che sappiamo fare meglio: incontrarci, condividere, ridere, ballare, mangiare… e ricordarci che essere italiani è un privilegio che va celebrato, non archiviato. Forza italiani!
La prossima festa facciamola noi. E che sia rumorosa, profumata e piena di vita. Se non altro, per non far pensare agli altri che ci siamo dimenticati di essere chi siamo. Per l’occasione, appunto, ho portato tre gusti intramontabili: limone, rinfrescante e vibrante, caffè con panna, perfetta fusione di energia e dolcezza e mandorla, tutto il sapore della Sicilia.. Un piccolo gesto, un cucchiaino di memoria, un modo per dire “Anche qui, dall’altra parte del mondo, non ci dimentichiamo chi siamo”.
Per me, portare la granita non è solo portare un dolce. È portare un pezzo di identità, un ponte tra generazioni, un invito all’incontro. Perché, come mi piace dire, l’integrazione vien mangiando… ma anche facendo e condividendo il gelato o la granita! È nella semplicità di un gesto condiviso che si costruisce il senso di comunità, non nell’approfittare di tali occasioni.
