Una riflessione a partire dalla mia cucina nei ritiri spirituali
di Luigi De Luca
Ci sono luoghi in cui il silenzio parla più forte delle parole.
Ho imparato questo cucinando per i ritiri spirituali nei conventi, dove il cibo non è un semplice pasto, ma un’occasione di ascolto: di sé stessi, degli altri, del proprio cammino interiore.
In quei giorni sospesi, mentre i partecipanti cercano un contatto con ciò che li abita, il cibo diventa un gesto sottile, quasi un sussurro. La mia cucina, lì, è semplice ma profonda: pochi ingredienti, essenziali, rispettati. Ho imparato a non usare aglio o cipolla per non agitare lo stomaco… e neppure l’anima.
Il cibo, in quel contesto, non deve disturbare, deve accompagnare. Tra eremiti e frati ci sono due modi di nutrire lo spirito. Nel mondo del silenzio contemplativo ho incontrato due vie opposte del vivere il cibo: Gli eremiti, che sfiorano il cibo quasi con timore. Mangiano poco, a volte pochissimo. Per loro il digiuno è un ponte verso la verità interiore, un modo per lasciare spazio all’ascolto.
I Frati Conviviali, invece, vivono la tavola come un’estensione della preghiera e della fraternità. Per loro il cibo è comunione, dialogo, gratitudine.
La mensa non è un luogo di consumo, è un luogo di relazione. Due visioni diverse, entrambe sacre. Entrambe ci ricordano che il cibo non è mai solo materia: è anche senso, simbolo, scelta. Il cibo che divide.
Divide quando perde il suo scopo. Quando diventa esibizione, quando serve principalmente a mostrare qualcosa di sé, invece che a donare qualcosa agli altri. Divide quando è usato come arma di affermazione personale, o quando la sua complessità schiaccia il suo messaggio.
Un cibo che vuole stupire a tutti i costi, che usa ingredienti nobili per confonderne il valore, come mescolare uno Champagne d’eccellenza a un succo qualunque, non costruisce ponti: li spezza.
Il cibo che unisce e’ invece quello che si prepara pensando a chi lo mangerà. Quello che rispetta la natura degli ingredienti, senza travestirli. Quello che rinuncia all’ego per lasciare spazio alla relazione. L’ho capito anche nel mio lavoro di gelatiere: un buon gelato non nasce da combinazioni complicate, ma da un’intenzione pulita.
Ogni gusto è un incontro, mai una competizione tra ingredienti. Quando il gelato è preparato con cura, si trasforma in un’esperienza che mette le persone sullo stesso piano: una piccola gioia condivisa, semplice, democratica, quasi spirituale.
Il cibo come via disciplinata. Per alcuni unisce attraverso il silenzio, per altri attraverso la condivisione. Per me, unisce quando viene cucinato senza ego. Quando l’intenzione non è impressionare, ma servire. È la stessa filosofia che porta l’Italia a vedere la propria cucina come un bene immateriale comune, un patrimonio UNESCO: perché ciò che abbiamo non è solo buon cibo… è un modo di stare insieme.
Infine, il cibo che unisce nasce dal cuore, non dalla mano. Il cibo che divide nasce dall’ego. Scegliere cosa cucinare, e come cucinarlo, è sempre una scelta su chi vogliamo essere.
E ogni giorno, che sia in un convento, in una gelateria, o in una cucina di casa, possiamo decidere: vogliamo nutrire gli altri, o vogliamo nutrire il nostro orgoglio?
